guerra reale

Come ha fatto questa guerra a diventare reale?

Quando all’inizio le vittime erano i ceceni, abbiamo guardato dall’altra parte. Non abbiamo voluto vedere la gente spinta fuori dalle loro case, rapita e seviziata, ritrovata cadavere a primavera lungo i fiumi. Quella era terra russa, dicevano dal Cremlino, i nemici erano fondamentalisti islamici. E così non abbiamo ascoltato Antonio Russo e Anna Politkovskaja, uccisi per aver testimoniato le atrocità dei russi. Per dieci anni, dal 1999 al 2009, assistemmo distratti alla prima guerra di Putin.

Arrivò poi il turno della Georgia, e non ci capimmo granché. C’erano due regioni separatiste e il Cremlino diceva che erano popolazioni minacciate, andavano protette dalla pulizia etnica dei georgiani. E nessuno ricordava come, vent’anni prima, i russi e i montanari islamisti del Caucaso approfittarono della confusione seguita alla dissoluzione sovietica per sottrarre quelle regioni al controllo di Tbilisi. Quando l’allora presidente Mikheil Saak’ashvili mosse per riportare quei territori sotto la sovranità georgiana, illuso che l’Occidente lo avrebbe sostenuto, i russi approfittarono della situazione per invadere la Georgia. Ma era colpa di Saak’ashvili, ci dicevamo, il Cremlino si è solo difeso. Correva l’anno 2008, ve lo ricordate?

Poi venne il turno della Crimea, ma dicevano che i tatari avevano collaborato con i nazisti durante la Seconda guerra mondiale quindi un po’ se lo meritavano, ed erano ormai una minoranza. La maggioranza era russa, bisognava difenderla dalle persecuzioni del nazionalismo ucraino. La Crimea fu così invasa e annessa. Era il 2014, e chi si ricordava più che anni prima, nel 1997, la Russia aveva firmato il “Trattato dell’amicizia” con il quale riconosceva la sovranità ucraina sulla Crimea? D’altronde a Putin i trattati non interessano.

L’aggressione al Donbass fu l’ultimo inganno, inscenare una guerra civile e poi difendere la minoranza russa, e tutti a dirci che in fondo la gente voleva così, che sono tutti filorussi. Anche se non è vero.

Quando Aleppo è stata rasa al suolo, i russi hanno trasformato in deserto una delle più antiche città del mondo. Ma erano visti come dei liberatori. Non c’era da combattere l’ISIS? Una giustificazione più convincente della “de-nazificazione dell’Ucraina.

Adesso che Kiev è sotto le bombe; che Mariupol è distrutta, la popolazione senz’acqua né rifugio; che Cherson è in macerie; che Kharkiv è colpita al cuore; che Odessa attende lo sbarco degli invasori; che la centrale nucleare di Zaporizhia è diventata un obiettivo militare; adesso ci chiediamo: “come siamo arrivati fin qui? Come ha fatto questa guerra a diventare reale?”. Una risposta sta nella nostra indifferenza, nel fatto che non abbiamo voluto vedere la realtà.

Ma c’è dell’altro. La realtà è stata falsificata, manipolata con retoriche tanto grossolane che non pensavamo qualcuno potesse davvero crederci. La propaganda di regime ha diffuso una visione del mondo che in Europa è apparsa ingenua, ma che in Russia ha penetrato le coscienze, giorno dopo giorno, sviluppando una narrativa capillare, estesa a ogni ambito della comunicazione, che ha prodotto una realtà alternativa rendendo infine apatica la società.

Ogni voce contraria è stata messa a tacere, gli attivisti sono stati uccisi, arrestati, perseguitati, ridotti al silenzio, chiamati indesiderabili o agenti stranieri. I propagandisti hanno preso il posto dei giornalisti, i pupazzi di regime hanno sostituito i politici, la replicazione ha preso il sopravvento sulla creatività. E senza una forza creativa – culturale, sociale, politica – la Russia è sprofondata in una visione paranoica del mondo, vittima di una mistificazione cui pochi hanno resistito.

In Europa pensavamo che la crisi economica, la pandemia, avrebbero infine eroso il consenso e allentato la presa del potere, che l’inganno sarebbe emerso per consunzione. E invece quella messinscena è scesa dal palco. Il teatro è diventato la realtà. E ci ha trascinato dentro tutti. Abbiamo assistito per anni con indifferenza, magari presunzione, allo squallido spettacolo del Cremlino. Qualcuno ha persino applaudito. E non ci siamo accorti che quella grottesca rappresentazione della realtà ci stava risucchiando sulla scena, attori di una storia che non pensavamo fosse scritta per noi.

Mentre la Russia ammassava truppe al confine, ancora pensavamo che l’esibizione muscolare servisse unicamente a mettere pressione ai negoziati. Ci dicevamo che una guerra su larga scala sarebbe stata inutile e contraria agli stessi interessi di Mosca. Una scelta irrazionale. Ma nella realtà alternativa del Cremlino, la guerra è apparsa una scelta possibile. Ora il velo illusorio che ha incantato i russi si sta bruscamente squarciando davanti ai soldati insepolti che le autorità russe non dichiarano deceduti, alle truppe demotivate e affamate, che assaltano i supermercati per rubare birre e salsicce, alle famiglie che cercano notizie dei loro figli, e non li sanno al fronte. Potranno radere al suolo un paese, fare il deserto e chiamarlo pace. Potranno abbattere un governo, uccidere chi resiste. Ma questa guerra l’hanno persa solo per il fatto di averla cominciata. Perché ci stiamo svegliando. In Europa come in Russia, il velo è caduto.

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Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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