Trent’anni fa il referendum per l’indipendenza della Bosnia; un evento il cui ricordo ancora divide il paese
In Bosnia Erzegovina l’inizio della fine, il punto di non ritorno, fu il primo marzo del 1992, trent’anni fa proprio oggi. Fu quello, infatti, il giorno scelto per il referendum sull’indipendenza, condizione per il riconoscimento internazionale del paese, dopo l’indipendenza slovena e croata.
Ma anche un referendum pervicacemente osteggiato dai nazionalisti serbo-bosniaci, contrari a qualsivoglia separazione da Belgrado. Il Partito Democratico Serbo (SDS) di Radovan Karadžić – pur membro della coalizione di governo dal 1990 – disertò la seduta del parlamento che indisse la consultazione, adottata dai soli parlamentari del Partito d’Azione Democratica (SDA), movimento guidato dal presidente Alija Izetbegović, e da quelli dell’Unione Democratica Croata (HDZ) di Stjepan Kljuić.
Una spaccatura che si riflesse nei numeri: il 63% degli aventi diritto si recò alle urne, quanti i bosgnacchi e croati all’epoca dei fatti. L’intera componente serbo-bosniaca restò a casa. Sebbene non fosse stato raggiunto il quorum dei due terzi previsti dalla Costituzione, Izetbegović dichiarò l’indipendenza e, poche settimane dopo, Stati Uniti e paesi europei la avallarono. Il 99% dei consensi erano stati più che sufficienti, dunque, per non doversi curar troppo della forma.
Ciò che successe dopo è storia: ed è una storia che si dipana nel racconto di genocidi, in quello dei campi di concentramento, delle fosse comuni, degli stupri etnici, delle peggiori atrocità. Fu la guerra di Srebrenica e dei villaggi lungo la Drina, di Sarajevo e delle granate sul mercato di Markale, di quelle nella piazza di Tuzla. Fu la guerra dei centomila morti e delle centinaia di migliaia di sfollati nella pulizia etnica. Ed è proprio questa uno dei lasciti più dolorosi e irreversibili di quel conflitto, ciò che fa dire che nulla in Bosnia Erzegovina sarà più come prima. Non tanto e non solo l’infinta crisi economica e sociale, la disillusione e la diaspora, la pace mai davvero iniziata, ma l’irreversibilità dei numeri in tutta la loro freddezza.
La freddezza dei numeri
I risultati del censimento del 2013 – il primo dopo quello, prebellico, del 1991 – non lasciano dubbi sulla segregazione etnica del paese: otto cantoni su dieci sono diventati monoetnici (in tre di questi la popolazione è quasi esclusivamente croata), i serbi nelle dieci maggiori città della Federazione (escludendo Sarajevo) sono oggi dieci volte meno che prima del conflitto, mentre la Republika Srpska è oggi all’85% puramente serba, e anche nella capitale i serbi (oggi un terzo di quelli che erano) si concentrano oltre il confine dell’entità, a Sarajevo est. Nella valle della Drina, dove i musulmani erano maggioranza assoluta, sono ora meno del 10%, con le sole eccezioni di Srebrenica e Bratunac.
Il dialogo impossibile
La guerra ha messo i serbi dove stanno i serbi, i musulmani dove stanno i musulmani, i croati dove stanno i croati. Almeno da questo punto di vista la guerra l’hanno vinta loro: i Karadžić e i Mladić, gli assassini e i genocidari. Lo dimostra lo stallo politico-istituzionale, il ricorso continuo a quei veti e contro-veti che paralizzano la Bosnia Erzegovina ad ogni livello.
Lo dimostrano le continue esternazioni di Milorad Dodik, membro serbo della presidenza tripartita, le sue minacce sempre più arroganti e ostili di secessione. E quel suo definire il primo marzo – data celebrata come giorno dell’indipendenza – “festa privata dei bosgnacchi che non si festeggerà mai nella RS”, proponendo in alternativa un giorno tutto suo, “tutto serbo”: il 9 gennaio, data nella quale i parlamentari di etnia serba, nel 1992, proclamarono unilateralmente la nascita della Repubblica serba di Bosnia Erzegovina. La Bosnia di oggi, insomma, è uno stato che non sa nemmeno mettersi d’accordo su quale giorno festeggiare l’inizio della propria storia comune, proprio perché non c’è più nulla di comune e tutto è rinchiuso in una sorta di gabbia etnica.
Quel primo marzo di trent’anni fa ancora non si sapeva che le cose sarebbero andate come poi andarono. Intanto venivano scavate trincee e ammassate truppe tutto intorno alla città. Il “rata néce biti“ (la guerra non ci sarà) era forse solo un motto buono per illusi e pacifisti, gli stessi che sarebbero stati poi presi a fucilate dai cecchini serbi solo un mese dopo il referendum, durante una manifestazione per la pace a Sarajevo e nelle stesse ore in cui Karadžić minacciava in parlamento che i musulmani sarebbero spariti dal paese. Gli stessi che si si illudevano che fino all’ultimo sarebbe potuta prevalere la ragionevolezza, il buon senso. Quante analogie con il dramma che stiamo vivendo proprio ora in Ucraina. Anche lì, fino all’ultimo si è sperato, irragionevolmente, irrazionalmente.
È un nastro che si riavvolge, questo, e che ci riporta ogni volta al punto di partenza. Una conferma in più del torto che ha chi ancora s’illude che la storia possa davvero insegnarci qualcosa.
Foto: antimafiaduemila.com