Con la scomparsa di Luan Starova, avvenuta il 24 febbraio a Skopje, se ne va per sempre un altro pezzo di vera “jugoslavità”, se non di autentica balcanicità a tutto tondo. Perché Starova è decisamente un homo balcanicus. Non solo nel senso ovvio che nei Balcani ci è nato e ci è vissuto, ma soprattutto perché ben riassume in sé, nella biografia e nel suo lavoro intellettuale, i movimenti, le mescolanze, le contaminazioni, le contraddizioni che segnano in profondità quest’area del mondo.
Starova è nato nel 1941 a Pogradec, sulla sponda albanese del lago di Ohrid, ed è vissuto a Skopje, dove è emigrato. Francesista, diplomatico – è stato il primo ambasciatore macedone a Parigi – e soprattutto scrittore e poeta. In Saga balcanica, opera in dieci volumi scritta in albanese e macedone, tratta il destino complesso della sua famiglia di migranti e lo fa con raffinata ricchezza di riflessioni sulla storia balcanica del Novecento. Racconta di confini, di esilii e di traslochi, in cui l’unica cosa che sopravviveva era l’enorme biblioteca del padre, che definisce «balcano-babelica». Così, attraverso la micro-storia della sua famiglia narra anche la grande storia, quella dei Balcani dalle frontiere perennemente instabili e mobili, dei conflitti e delle tensioni, ma anche delle ricchezze culturali.
In Italia sono stati pubblicati I libri di mio padre, Il tempo delle capre e Sacrificio balcanico, tre libri che colgono le lunghe e complesse traversie geografiche e mentali dell’autore, che potrebbe essere accostato – mutatis mutandis – ad un altro grande della cultura jugoslava e post-jugoslava, Predrag Matvejević, lo scrittore tormentato dei confini e delle frontiere.
L’Europa, per Starova, sembra essere il destino naturale della Macedonia e di tutti i paesi della ex-Jugoslavia, quasi un mito (se non un deus ex machina) che può aiutare a risolvere i (tanti) problemi interni. Ma il rilancio dell’integrazione si allontana e per la Macedonia l’attesa d’essere accolta nella Ue si fa frustrante, nonostante che il Consiglio dell’Unione abbia dato il via libera unanime all’apertura dei negoziati di adesione, senza però fissare una data per il loro avvio.
Ne Il tempo delle capre Starova descrive in modo surreale l’irrazionalità del potere comunista, che voleva trasformare “stalinianamente” i pastori macedoni in classe operaia, facendosi autore di una saga romanzata che narra la storia di una famiglia albanese nell’esilio balcanico di un secolo partendo da una metafora globale fatta di capre, anguille (esseri migranti per eccellenza), giannizzeri, chiavi di casa (da portarsi dietro nell’illusione di poter un giorno tornare, proprio come nella guerra bosniaca). La linea di questa saga passa nel pensiero del bambino narratore, alter ego dell’autore, che dovrebbe rappresentare una salutare meditazione sulla provvisorietà delle cose in generale e in particolare nei Balcani.
Ma Starova immagina un altro romanzo dal titolo Il ritorno delle capre. Si tratta del destino delle capre cinquant’anni dopo. Nei villaggi quasi deserti, in cui c’è fame ed emigrazione – è la Macedonia ex-jugoslava dei difficili anni novanta – non si riescono a creare degli ovili nonostante l’aiuto di una associazione di sviluppo zootecnico. Così le povere capre finiscono nelle mani della “mafia caprina” (metafora della transizione) e presto scompaiono tra le montagne, divorate da lupi dal volto umano come quelli descritti ne Il tempo delle capre.
Sappiamo bene che le minacce del disfacimento, dell’assimilazione, dell’intolleranza e del conflitto non sono certo scomparse, nei Balcani come altrove. I lupi dal volto umano sono sempre tra noi. Ma la vita di Starova ha sussunto la rappresentanza esemplare della convivenza, insegnandoci che è sempre possibile una fraternità senza alcuna chiusura, senza gli eccessi dell’astrazione ideologica e senza le ottuse rigidità etniche e religiose.