Siamo alla vigilia del trentennale dell’inizio della guerra in Bosnia. Un conflitto che ha cambiato irreversibilmente il paese. La memoria è un dovere.
Si inerpica ripida questa salita. Dalle viuzze del quartiere turco di Baščaršija s’arrampica lungo le prime pendici settentrionali del monte Trebević promettendoti, a compensazione, ciò che resta del bastione giallo e della sua storia di duecento anni. Da quassù si gode della più bella vista della città. Chi la percorre oggi, lo fa col groppo della fatica e del disorientamento, ascoltando cuore e polmoni palleggiarsi il sangue. E come quel sangue, l’ascesa è forzata tra i vicoli stretti del cimitero musulmano di Kovači, che s’attorcigliano e si ingarbugliano, inestricabili come le vene del dorso di una mano.
Sono identiche l’una all’altra le piccole lapidi bianche: si rizzano, a centinaia, direttamente dalla terra nuda, senza altri fronzoli se non un nome difficile da dire e una data. Nulla di strano, ma qui siamo a Sarajevo, e quelle date sono tutte innaturalmente vicine, millenovecento-novantadue, millenovecento-novantacinque, non un anno di più, non uno di meno. Sono memoria, quei numeri, memoria scolpita a ricordarci i morti ammazzati nel più lungo assedio cittadino della storia contemporanea. Millequattrocento-quarantaquattro giorni. Ci sono molti altri luoghi come questo, in Bosnia Erzegovina: cattolici, ortodossi, ebrei. È una terra così, questa e, si sa, la morte non va troppo per il sottile: si piange con occhi uguali dappertutto.
Sono passati trent’anni dall’inizio di quell’assedio e di quella guerra. Trent’anni da quando la Bosnia Erzegovina fu teatro, nella quasi incredulità dei suoi stessi abitanti, di un drammatico scontro che si tentò subdolamente di far passare per conflitto etnico, quasi si trattasse di una lotta tribale. Fino all’ultimo tra gli abitanti di Sarajevo ci si era illusi che alla fine avrebbe prevalso il komšiluk, parola di origine turca che indica rapporti di buon vicinato tra persone di diverso credo, e che la pace l’avrebbe spuntata sull’odio. Come dubitarne, d’altra parte? Non era forse Sarajevo la città conosciuta in tutto il mondo come “la Gerusalemme d’Europa”? Non era Sarajevo la città della tolleranza, della multiculturalità, della convivenza?
Non era forse Ivo Andrić che scriveva «A Sarajevo chi soffra d’insonnia può sentire strani suoni nella notte cittadina. Pesantemente e con sicurezza batte l’ora della cattedrale cattolica: le due dopo mezzanotte. Passa più di un minuto ed ecco che si fa vivo, con un suono più flebile, ma più penetrante, l’orologio della chiesa ortodossa. Poco dopo, con voce sorda, lontana, il minareto della moschea imperiale batte le undici: ore arcane, alla turca, secondo strani calcoli di terre lontane, di parti straniere del mondo. Gli ebrei non hanno un orologio proprio che batta le ore, e solo Dio sa qual è in questo momento la loro ora […]. Così, anche di notte, mentre tutto dorme, nella conta di ore deserte d’un tempo silenziose, è vigile la diversità di questa gente addormentata, che da sveglia gioisce e patisce, banchetta e digiuna secondo quattro calendari diversi e invia al cielo desideri e preghiere in quattro liturgie diverse»?
I morti furono centomila, sebbene nemmeno sulla loro conta sembri sia possibile mettersi d’accordo. Di questi, oltre ottomila solo a Srebrenica, bosniaci musulmani assassinati a sangue freddo nel giro di una manciata di giorni nella colpevole indifferenza del mondo intero e dell’Onu, che aveva promesso protezione e che invece lasciò quella gente sola al proprio destino. Un orrore tanto grande da “costringere” le Nazioni Unite a riconoscere che “Srebrenica” fu genocidio, una parola che è tornata a riecheggiare in Europa mezzo secolo dopo l’olocausto.
Non bastò, al mondo non bastò. Per arrivare agli accordi di Dayton, che nel novembre del 1995 posero formalmente fine al conflitto, fu necessario passare anche attraverso lo scempio dell’eccidio di civili al mercato di Markale, a Sarajevo. Cinque granate, che il 28 agosto 1995 provocarono quarantatré morti tra la gente in fila per il pane, quarantatré morti che finalmente colmarono la misura e che portano all’intervento dell’Occidente e i contendenti al tavolo della pace. Markale è una rosa rossa incastonata nell’asfalto, ora. Ce ne sono disseminate dappertutto in città, hanno sostituito i crateri delle bombe, a ricordo di chi sotto quelle bombe ha perso la vita.
«Durante l’assedio eravamo suddivisi tra quelli che hanno con le loro vite piantato le rose, e quelli sopravvissuti che le annaffiavano con le loro lacrime» (Jasminko Halilović).
Camminando per strada schivo quelle rose per rispetto e per pudore, giro in tondo senza distogliere lo sguardo. C’è forse anche un sentimento di vergogna per il pezzetto di responsabilità che mi spetta per quella guerra avvenuta a un’ora di volo da casa mia. Ma l’impressione che si ha è che quelle rose non suscitino più alcuna emozione tra i sarajevesi. Non è indifferenza, non potrebbe. È stanchezza, piuttosto, desiderio di passare oltre. Se la guerra si è portata via tutto – vite, case, ponti come quello che, a Mostar, rappresentava anche simbolicamente la capacità di stare insieme –, è la pace che sembra non essere mai iniziata. E a prevalere è la consapevolezza che se è vero che i trattati di Dayton siano stati in grado di far tacere le bombe, essi abbiano, contestualmente, avallato la suddivisione della Bosnia Erzegovina su basi etniche e religiose. L’ostilità tra gruppi nazionali non è stata la causa della guerra ma, di sicuro, ne rappresenta l’indotto più pesante.
C’è una discesa che mi aspetta. Il ritorno ai vicoli di Baščaršija, ai caffè all’aperto, alle piccole botteghe artigiane dove viene lavorato il rame con una destrezza senza pari. Negli ultimi anni sui banconi di queste botteghe hanno fatto capolino piccoli resti della guerra passata e non è difficile imbattersi in bossoli di proiettile trasformati in penne biro. Non vedo irriverenza in questo, piuttosto una specie di catarsi, un piccolo pezzo di memoria.
Perché la memoria è come lo sputo che tiene insieme tutto. Il suo contrario non è l’oblio, ma la negazione.
(Foto: Pietro Aleotti/East Journal)