trent'anni URSS

Trent’anni dopo l’URSS cosa ci rimane?

Trent’anni dopo l’URSS resta ancora incerta l’eredità dei quel periodo: tra nostalgia e oblio, il comunismo è tornato a essere uno spettro?

“Alla fine m’ha fatto pena anche lui, così com’era nel mausoleo, ridotto a una testa vuota e a due mani color di un’arancia: non più dio, non più santo, neppure più ‘compagno’. Per questo, voltandomi a guardarlo per un’ultima volta, con addosso gli occhi cattivi delle guardie del KGB, m’è venuto spontaneo sorridergli e bisbigliargli: Buonanotte, Signor Lenin!”.

Così termina il libro di Tiziano Terzani, in cui racconta nella sua fortuita testimonianza di viaggio tra l’agosto e l’ottobre 1991 l’agonia dell’URSS; agonia che terminerà un paio di mesi dopo, com’è noto.  Sono passati trent’anni da allora, uno spicchio di tempo lunghissimo per l’accelerazione degli eventi che stiamo vivendo. Uno spicchio di tempo che ha permesso comunque una decantazione di cui oggi possiamo intravedere almeno tre tracce.

La prima è quella che possiamo definire trionfalistica. Finalmente l’ “Impero del Male” (Donald Reagan dixit) è caduto e quindi anche il male nel mondo (gli “Stati canaglia”), di conseguenza, è ridimensionato o cancellato. Anzi, siamo alla vertiginosa “fine della storia” (Fukuyama), il capitalismo liberale segna finalmente e pienamente il culmine del progresso storico umanamente raggiungibile. D’altronde i settant’anni dell’URSS sono stati solo una lunga illusione, “il passato di un’illusione” (Furet).

La seconda traccia – o meglio, non traccia – è quella dell’oblio. L’ Ottobre è stato rielaborato ed è festeggiato il 4 novembre, giorno dell’Unità nazionale, in ricordo della vittoria russa sui polacchi del 1612. La rivoluzione non ha nulla di positivo agli occhi della democratura al potere oggi, che vede come fumo negli occhi ogni sommovimento politico nato dal basso, per cui il 1917 è un evento intrinsecamente negativo; così come Lenin, che scardinò la vecchia Russia e la cui figura non è gradita al potere. A differenza invece del suo successore, Stalin, che viene visto come il popolare ricostruttore dello Stato forte – sia pure nella forma sovietica – nonché vincitore della Seconda guerra mondiale, ribattezzata Grande guerra patriottica.

La terza traccia è quella del binomio nostalgia-rimpianto. Una traccia che può essere quantificata nei quasi 11 milioni di voti presi dal partito comunista russo (KPRF) nelle parlamentari del 2021, o nel 48% di russi che dice (sondaggio condotto dal Levada Center) che la rivoluzione ha avuto un ruolo positivo per la storia nazionale (negativo per il 31%), mentre per il 25% del campione la rivoluzione “ha aperto una nuova era per la storia dei popoli russi” e ha stimolato il loro sviluppo economico e sociale (36%). Tuttavia le risposte al sondaggio fanno della figura di Lenin un personaggio puramente storico, ma inattuale ed anacronistico per i tempi presenti.

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Rimane sottaciuto o silenzioso l’aspetto ideologico. Eppure “Lo Stato sovietico era uno Stato ideologico – per molti versi, una novità della storia. L’ideologia marxista-leninista rappresentava la fonte di legittimazione del potere rivoluzionario e costituiva la grammatica politica e culturale della società sovietica”. Infatti “La rivoluzione era percepita come un momento decisivo di palingenesi della realtà russa e pertanto del mondo. La convinzione dei bolscevichi, alla presa del potere nell’ottobre 1917, era che l’utopia universalista di cui erano portatori si sarebbe affermata a breve su scala planetaria, ovvero che sarebbe scoppiata da lì a poco una rivoluzione mondiale. In questo senso gli eventi russi dell’Ottobre erano il primo passo di una trasformazione palingenetica che sarebbe passata attraverso la demolizione del vecchio ordine” (Limes) per arrivare addirittura ad un “Nuovo pianeta”, raffigurato nel 1921 dal pennello del simbolista russo Konstantin Yuon.

La “costruzione di una nuova vita” (per dirla con Lenin) è il frutto dell’eredità rousseauiana che trasferisce la responsabilità del male dal cielo alla terra, da Dio alla società. L’ideologia diventa allora formidabile promessa di felicità che però oggi, per l’individualismo post-utopico, trova scarse credenziali. Piuttosto, “un’umanità che possiede una sfera di autonomia, benessere, diritti soggettivi, e che si dedica al soddisfacimento dei propri desideri in una sorte di eterno presente, non avendo più interesse a combattere per modificare lo stato di cose e fare storia, assomiglia alla società senza classi del comunismo realizzato; se non si considerano i rapporti di forza da cui la Western way of life nasce e ci si concentra sui valori che la forma di vita occidentale propone, un assetto come questo ha qualcosa di utopico” (Mazzoni).

Il comunismo – sovietico soprattutto – è ritornato ad essere uno spettro, anche se tutto ciò di cui si accusa il capitalismo (e qui l’elenco sarebbe lungo) è in gran parte concepibile solo grazie all’ombra di questo Altro oggi demodé, se non innominabile.

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Chi è Vittorio Filippi

Sociologo, docente Università Ca’Foscari e Università di Verona, si occupa di ricerca sociale, soprattutto nel campo della famiglia, della demografia, dei consumi. Collabora nel campo delle ricerche territoriali con la SWG di Trieste, è consulente di Unindustria Treviso e di Confcommercio. Insegna sociologia all’Università di Venezia e di Verona ed all’ISRE di Mestre. E’ autore di pubblicazioni e saggi sulla sociologia della famiglia e dei consumi.

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