L’identità e il comportamento degli stati
Tra le diverse teorie presenti nel campo delle relazioni internazionali ve n’è una, quella costruttivista, che sembra prestarsi più di altre all’interpretazione e alla decifrazione dei rapporti tesi che intercorrono tra russi e baltici. Tale corrente di pensiero, che ha nel politologo tedesco Wendt uno dei suoi esponenti principali, ritiene che gli stati non siano mossi nei loro comportamenti tanto da agenti esogeni, come le pressioni esercitate su di loro dal sistema internazionale, quanto sulla base di fattori di tipo endogeno come l’identità. Un’identità socialmente costruita e che prende forma nella sua relazione “con l’altro”, che ha una precisa struttura narrativa e descrittiva in cui ruolo fondamentale è giocato dalla memoria storica collettiva.
Il conflitto identitario tra Russia e baltici
Nella relazione tra Russia e paesi baltici, seppur con le differenze che vi sono tra le tre repubbliche, intercorre un tipo di conflitto identitario latente che, in alcuni momenti, emerge in superficie dando vita a momenti di grande tensione. Come avvenne, ad esempio, nel 2007 a Tallinn, quando in seguito alla decisione del governo estone di rimuovere un memoriale sovietico dedicato ai caduti nella guerra al nazismo scoppiò una violenta protesta dei cittadini di minoranza russa che fu sedata a fatica solo dopo alcuni giorni. Tale avvenimento viene ricordato come turning point per l’Estonia che nel corso di quelle settimane fu vittima di violentissimi cyber attacchi russi e che da quel momento in poi iniziò il percorso che ha portato il paese a divenire uno dei leader mondiali della sicurezza digitale e, successivamente, uno degli stati più digitalizzati al mondo.
Negarsi reciprocamente
Il problema di fondo è che ciascuna delle due identità, quella dei paesi baltici e quella russa, si erge in parte sulla negazione dell’altra. Gli stati baltici, dalla disgregazione dell’URSS in poi hanno fondato la loro identità sulla dottrina della continuità legale e cioè sul principio di diritto internazionale conosciuto come iniuria jus non oritur che afferma come gli sviluppi di atti illegali debbano essere considerati essi stessi fuori legge e quindi privi di conseguenze pratiche. Estonia, Lettonia e Lituania si considerano, de jure, gli stessi stati che già negli anni Venti del secolo scorso avevano ottenuto una prima indipendenza, poi persa successivamente a causa dell’illegale occupazione sovietica del 1939.
Mentre, in posizione opposta, la Federazione Russa di Putin si pone in continuità con il glorioso passato sovietico che aspira a far rivivere dal punto di vista imperiale (si pensi all’Ucraina).
Russificazione e minoranze russofone nel Baltico
Questa reciproca negazione è riscontrabile nella tematica delle minoranze russe presenti soprattutto in Estonia e Lettonia. La “russificazione” delle periferie, ed in particolare del baltico, fu una delle caratteristiche delle politiche messe in atto dopo la fine della Seconda guerra mondiale dell’URSS di Stalin. Vi fu, al tempo, la deportazione verso i gulag siberiani di decine di migliaia di persone appartenenti a gruppi etnici autoctoni che si inquadra in quel tentativo di sostituzione delle culture e delle identità nazionali con una “cultura di massa sovietica”, tramite quello che può essere considerato un vero e proprio fenomeno di colonialismo interno.
A essere deportati soprattutto proprietari terrieri e contadini baltici, visto che l’obbiettivo finale era quello di espropriare le loro terre per dare avvio ad una massiccia collettivizzazione dell’agricoltura, tramite le creazioni dei kolchoz. Parallelamente, vi era anche un movimento migratorio verso le repubbliche baltiche, che portò un grande numero di lavoratori di etnia russa (circa 200.000 in Estonia e 400.000 in Lettonia). Il risultato di questi movimenti sono la causa dell’odierna presenza di abitanti d’etnia russa in Estonia (circa 24,6%) e in Lettonia (25,2%). In Lituania il fenomeno ebbe dimensioni più trascurabili, visto che a causa della sua arretratezza industriale e alla scarsa necessità di manodopera non si verificò quella massiccia immigrazione di russofoni.
La reazione baltica: negare la cittadinanza
Riga e Tallinn, una volta raggiunta l’indipendenza hanno introdotto delle leggi sulla cittadinanza fortemente escludenti, basate su un tipo di ius sanguinis “a termine”, cioè sul diritto di essere considerati cittadini solo alle persone residenti nel paese nel giugno del 1940 (data dell’occupazione sovietica) e ad i loro discendenti. Ciò ha posto un gran numero di persone in una situazione di limbo, in cui, dopo aver perso la cittadinanza sovietica non erano più in grado di assumere quella estone o lettone diventando dei “Non-Cittadini”, nepilsoni (o kodakondsuseta isik, in estone). Col tempo è stata introdotta la possibilità di ottenere la cittadinanza tramite dei processi di naturalizzazione in cui il richiedente cittadinanza deve dimostrare, oltre che alla sua residenza permanente e alla fedeltà alla Costituzione nazionale, una conoscenza approfondita della cultura e della lingua nazionale, ma anche della narrativa storica nazionale.
L’uso politico delle minoranze russe da parte di Mosca
La presenza di queste minoranze e la loro mancata integrazione, in uno scenario come quello di oggi, in cui la Russia è tornata a farsi minacciosa da un punto di vista geopolitico ed in cui, spesso, le minoranze russe vengono usate da Mosca come teste di ponte per aprire fronti di guerra come avvenuto in Ucraina, non dovrebbe far dormire sogni tranquilli alle repubbliche baltiche.
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