La lira turca è sempre più in sofferenza, complice la politica monetaria del presidente Erdoğan, che gli sta costando la perdita di consensi
Le ultime settimane hanno visto la Turchia subire una nuova forte svalutazione della propria lira, dando il via a sua volta ad una fiammata generalizzata dei prezzi. La caduta della lira è stata vertiginosa, con una perdita di valore rispetto al dollaro del 10% in un solo giorno (23 novembre), in seguito all’annuncio da parte della Banca Centrale di voler abbassare ulteriormente i tassi di interesse e alla concomitante dichiarazione del presidente Recep Tayyip Erdoğan che la Turchia sta conducendo una “guerra di indipendenza economica”. Per Erdoğan, le attuali difficoltà economiche del paese e i problemi della lira deriverebbero da un presunto tentativo di sabotaggio da parte delle “forze straniere”.
Attualmente il tasso di inflazione in Turchia si attesta ufficialmente al 19-20 percento, ma diversi analisti temono che questa percentuale possa essere più alta. Quest’anno la lira ha perso il 40-45 percento del suo valore, svalutandosi del 30 percento nel solo mese di novembre.
L’erosione della valuta sta avendo un impatto molto pesante sulla vita delle persone e sulla loro quotidianità, e il potere d’acquisto diminuisce drammaticamente. Il sentore comune percepisce un rischio di povertà sempre più incipiente, e sempre più numerosi disagi, come riportato da una donna: “Non posso più comprare gli stessi prodotti allo stesso prezzo al mercato, nella stessa settimana”.
A farne le spese non sono solo le classi meno abbienti, tradizionalmente più esposte alle difficoltà economiche, anche la classe media si sta scoprendo sempre più vulnerabile. Tutta una serie di comforts di cui ha sempre goduto è ora inaccessibile, a partire da attività culturali, come andare al cinema oppure a teatro, fino all’acquisto di un nuovo telefono oppure di un frigorifero – queste ed altre spese sono ora da molti considerate “non essenziali” e pertanto accantonate (“perfino […] una tazza di caffè”).
D’altra parte, nell’ultimo anno il paese ha vissuto un’intensa crescita economica, registrando un vero e proprio boom delle esportazioni – rovescio “positivo” di quella stessa medaglia rappresentata dalla politica monetaria all’origine dell’esplosiva inflazione in Turchia. In seguito alla caduta della lira, i prodotti turchi sono infatti diventati estremamente convenienti per il mercato internazionale e le esportazioni in ottobre sono aumentate del 20%. Spinto dalla crisi valutaria, l’aumento dell’export non è tuttavia sostenibile nel medio-lungo termine, a causa delle fluttuazioni della lira che rendono l’economia troppo instabile e altalenante.
Il problema dell’inflazione non è tuttavia una novità del momento: la lira turca ha iniziato la sua corsa al ribasso nel tardo 2017 e Istanbul convive da anni con l’incertezza economica, una diretta conseguenza della politica recente, nazionale e non.
Già vittima di problemi strutturali di lunga data, è dal 2017/2018 che l’economia turca ha rallentato la sua corsa, dall’entrata in vigore della politica monetaria (decisamente poco ortodossa) imposta da Erdoğan, fondata sull’idea che tassi di interesse elevati contribuiscano a far salire l’inflazione e che, viceversa, tassi di interesse bassi abbasserebbero l’inflazione: la realtà è il ribasso provoca a lungo andare la svalutazione della moneta, rallentando di fatto e paralizzando sempre di più l’intero sistema economico.
Nel frattempo, anche l’indipendenza della Banca Centrale e dell’apparato economico del paese è andata incrementalmente riducendosi: i ruoli chiave sono stati sempre più spesso affidati a politici ed economisti leali al governo e al Presidente. Un esempio su tutti: fra il 2018-2020 era in carica come ministro degli Affari economici il genero di Erdoğan il quale ha ripetutamente cambiato il capo della Banca Centrale al minimo accenno di disaccordo con la sua agenda monetaria: a inizio dicembre, con la lira in pieno tumulto, ha nominato il nuovo ministro dell’Economia – il precedente è stato in carica appena un anno.
L’economia turca risente infine di una serie di eventi politici che ne hanno minato sempre più le già strutturalmente fragili fondamenta: fra questi, il tentato colpo di stato nel luglio 2016, le crescenti tensioni con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, fino al fallimento del processo di pace con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (il PKK) e la ripresa delle ostilità, una dinamica che a sua volta si intreccia con la Guerra civile siriana, combattuta ai margini meridionali della penisola anatolica.
La stessa economia ha però a sua volta ricadute pesanti sulla politica: il rallentamento economico potrebbe avere un forte impatto sulla leadership di Erdoğan e del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), la cui permanenza al potere e dominio della scena politica nazionale sono stati a lungo garantiti dal “miracolo economico”, avviato con la loro salita al potere nel 2002. Se la crescita economica dovesse effettivamente stagnare, o peggio ancora retrocedere, il rischio effettivo di una destabilizzazione politica per Erdoğan e il AKP sarebbe altamente concreto, soprattutto con un occhio alle prossime elezioni presidenziali in programma per il 2023. Attualmente i sondaggi indicano un declino della popolarità di Erdoğan e del suo partito, destando non poche preoccupazioni per il “Sultano”.
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Fonte: Pixabay