“In Bosnia bisogna superare la gabbia etnica”, intervista all’ambasciatore Giffoni

Le tensioni interetniche in Bosnia-Erzegovina hanno raggiunto livelli preoccupanti negli ultimi mesi, in relazione soprattutto all’atteggiamento e alle esternazioni pubbliche di Milorad Dodik, rappresentante serbo della presidenza tripartita. Per la prima volta dal dopoguerra la secessione dell’entità a maggioranza serba e la divisione del paese tornano ad essere uno scenario concreto e i timori di un nuovo conflitto un’ipotesi possibile.

East Journal ne ha parlato con l’Ambasciatore Michael L. Giffoni, già capo della Task Force per i Balcani Occidentali dell’Alto Rappresentante UE per la Politica Estera e di Difesa, Javier Solana, dal 2004 al 2008 e primo Ambasciatore d’Italia in Kosovo dal 2008 al 2013. Giffoni ha trascorso l’intero decennio degli anni Novanta nella ex Jugoslavia in guerra, in Bosnia-Erzegovina dal 1994 al 1999: già primo Segretario dell’Ambasciata d’Italia, dopo gli accordi di pace di Dayton è stato Principal Political Advisor dell’Alto Rappresentante, Carl Bildt, e del suo successore, Carlos Westendorp.

L’Alto Rappresentante per l’attuazione degli accordi di Dayton ha recentemente affermato che la Bosnia sta affrontando “la sua più grave minaccia esistenziale del dopoguerra”. Cosa sta succedendo nel paese?

La verità è che i 26 anni di vita della Bosnia-Erzegovina uscita dagli accordi di Dayton sono stati una lunghissima crisi, a volte a bassa e a volte ad alta intensità, dovuta proprio al suo scarso livello di “istituzionalizzazione”: si può affermare che il più complesso e travagliato dei sette stati post-jugoslavi sia passato dall’inferno di una guerra costata oltre 100 mila morti, nonché l’orrendo genocidio di Srebrenica, al lungo purgatorio segnato dall’assenza di un conflitto armato ma da una pace “fredda” e paralizzante, lontana da ogni situazione di vera normalità e di progresso sociale, civile ed economico.

Quello che è successo nelle ultime settimane è stato un crescendo di tensioni che hanno provocato una duplice crisi istituzionale dovuta all’accentuarsi delle spinte centrifughe delle due maggiori tendenze etno-nazionaliste, quella serba (in modo estrema) e quella croata (in maniera meno eclatante ma insidiosa), volte a diminuire le competenze e l’effettività delle istituzioni comuni, di fatto già limitate e deboli. Ad aggravare la situazione si è aggiunta la disorganica congiuntura internazionale con un’internazionalizzazione della crisi nella quale le potenze globali (Stati Uniti, UE e Russia) e i due maggiori Paesi confinanti (Serbia e Croazia) sono intervenute strumentalizzando e accentuando le contrapposizioni e le divisioni invece che attenuandole e disinnescandole.

Le ultime esternazioni di Dodik, ma anche di Dragan Čović (uno dei leader dei croato-bosniaci), sottendono davvero una volontà separatista o sono la foglia di fico per nascondere la drammatica situazione economico-sociale del paese? L’Occidente sbagliò a dar credito a Dodik quando entrò nella scena politica bosniaca?

I recenti tentativi di rispolverare questioni di competenze (statali o locali) e quelli di estremizzare le tensioni politiche in chiave etno-nazionalista (da parte della leadership serbo-bosniaco e croato-bosniaca, e talvolta – di riflesso ovviamente – anche da parte bosgnacca) sembrano servire in primo luogo alla leadership locale per distogliere l’opinione pubblica interna e la comunità internazionale dai veri problemi del paese, vale a dire la situazione economica disastrosa con prevalenza dell’economia sommersa o criminale, le difficoltà nella gestione della pandemia, la corruzione che soffoca la vita pubblica, la segregazione di fatto e l’inesistente tutela dei diritti civili.

Sono questi i veri problemi che assillano la popolazione della Bosnia-Erzegovina, di qualsiasi etnia e classe sociale, e la costringono, soprattutto tra le fasce giovanili, a cercare una via di speranza emigrando all’estero, ma sarebbe semplicistico (e strumentale) affermare che essi potranno essere risolti o anche solo attenuati accentuando la separazione etnica, come propongono Dodik, Čović e accoliti. Solo una riforma generale del sistema di governance istituito a Dayton, e il superamento del principio etnico che ne è alla base (essenziale allora per mantenere la pace ma la cui mancata “evoluzione” è risultata dannosa per l’institution building) potrà effettivamente portare a un miglioramento della vita dei cittadini e non alla preservazione del potere (e relativi interessi) di chi già lo detiene.

Quanto a Milorad Dodik, non bisogna dimenticare che sin dai tempi della guerra e durante i vari negoziati di pace, egli costituiva in Republika Srpska l’unico punto di riferimento per l’opposizione (nazionalista ma su basi decisamente più moderate e accettabili) non solo alla cricca criminale di Radovan Karadžić e sodali del partito SDS ma anche agli ultranazionalisti seguaci del leader dei radicali serbi Vojislav Šešelj. Per la comunità internazionale affidarsi a lui e anche favorirlo era una strada obbligata e non c’erano alternative: la sua deriva nazionalista è del resto iniziata solo dopo che si era ben insaldato al potere a partire dal 2006 e si è accentuata ogni volta che tale potere è parso scricchiolare.

C’è il rischio che la crisi bosniaca diventi un terreno su cui si riproponga lo scontro tra “blocchi” contrapposti, sia a livello globale che locale, il tutto sulla pelle del paese?

Questo rischio esiste ed è stato spesso il “fattore internazionale” a incidere negativamente non solo nella crisi attuale ma anche nelle fasi alterne di crisi e stasi che hanno accompagnato il travagliato percorso della Bosnia post-Dayton. L’internazionalizzazione della situazione bosniaca ha per lo più agito in questi anni in funzione destabilizzante piuttosto che stabilizzante in primo luogo per i tentativi di strumentalizzazione dell’etno-nazionalismo serbo e croato (da parte di Belgrado e Zagabria sul piano regionale e di Mosca in primo luogo sul piano globale, con reazione di riflesso da parte di Washington) che l’Unione Europea purtroppo non è stata in grado di bilanciare con la prospettiva europea dei Balcani Occidentali e della Bosnia stessa e la spinta all’adesione, che, nonostante il “momento magico” dei primi anni del nuovo secolo (tra il 2000 e il 2005 e la Dichiarazione di Salonicco del giugno 2003), è diventata una chimera per i paesi balcanici e lo specchio del proprio fallimento per l’UE stessa.

Cosa dovrebbe fare la comunità internazionale per risolvere strutturalmente la “questione” bosniaca dato che è evidente che il sistema di governance uscito da Dayton mostra la corda?

Invece che strumentalizzare i singoli aspetti (soprattutto i fattori etno-nazionali) della questione bosniaca per fini regionali o globali, le varie componenti della comunità internazionale dovrebbero provare a compattarsi e concentrarsi sul “nocciolo della questione”, vale a dire l’insostenibilità del sistema di governance, che può essere migliorato solo con il superamento della gabbia etnica. La struttura costituzionale insieme con la sovrastruttura di supervisione e semi-protettorato incapace di innovarsi sono diventate un sistema conservativo, il complessivo “sistema di Dayton”, autoreferenziale e auto-riproduttivo.

E’ a questo problema che la comunità internazionale deve dare una risposta se vuole provare a risolvere la “questione bosniaca”, come chiave di volta per la stabilità e il progresso dell’intera regione balcanica e della stessa Europa, ma per farlo bisogna avere il coraggio di andare “oltre Dayton”, proprio per raggiungere tutti gli obiettivi della pace stessa (non solo la stabilizzazione di breve termine ma anche una normalizzazione politica e sociale) e riformare il sistema iniziando a sostituire la “rappresentanza civica” alla “rappresentanza etnica” come principio della struttura istituzionale e della vita civile, come era del resto nelle intenzioni di chi quegli accordi li aveva negoziati e conclusi. I compromessi al ribasso e di breve termine potranno certo alleviare la tensione ma mai fare un passo concreto per la vera soluzione della questione.

A quasi trent’anni dalla fine della guerra il paese sembra non avere fatto alcun passo avanti nel processo di riconciliazione. Sembra impossibile che i fantasmi del passato possano davvero diventare memoria condivisa. Ha ancora senso, quindi, pensare alla Bosnia come ad un paese unitario?

I fantasmi del passato, quelli di Srebrenica in primo luogo, non svaniscono nascondendoli e negandoli. Coma fa Aida, la protagonista dello splendido film di Jasmila Žbanić, solo guardando negli occhi quel passato di dolore si potrà trasformarlo in “memoria” ponendolo alla base per una sofferta ma efficace ricostruzione umana, civile e collettiva. Solo così vi potrà essere la possibilità di un futuro di pace e serenità per la Bosnia-Erzegovina, per la Serbia e per i paesi balcanici: tutte le altre questioni, istituzionali, economiche e sociali, e finanche quelle identitarie, se questo nodo non verrà sciolto, finiranno con il risultare secondarie. Senza memoria condivisa non ci può essere futuro in Bosnia e nei Balcani, e forse non solo lì, che si voglia vivere assieme o anche separati.

Foto: Sinjali

Chi è Pietro Aleotti

Milanese per caso, errabondo per natura, è attualmente basato in Kazakhstan. Svariati articoli su temi ambientali, pubblicati in tutto il mondo. Collabora con East Journal da Ottobre 2018 per la redazione Balcani ma di Balcani ha scritto anche per Limes, l’Espresso e Left. E’ anche autore per il teatro: il suo monologo “Bosnia e il rinoceronte di pezza” ha vinto il premio l’Edizione 2018 ed è arrivato secondo alla XVI edizione del Premio Letterario Internazionale Lago Gerundo. Nel 2019 il suo racconto "La colazione di Alima" è stato finalista e menzione speciale al "Premio Internazionale Quasimodo". Nel 2021 il racconto "Resta, Alima - il racconto di un anno" è stato menzione di merito al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

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