Ci sono cose difficili da spiegare a chi ha meno di trent’anni. Vukovar è una di quelle. Difficile da spiegare almeno quanto fu difficile da capire quando Vukovar cadde, trent’anni fa appunto, tra la fine dell’estate e l’autunno inoltrato dell’anno ‘91 del secolo scorso.
Si può giocare la carta del confronto, forse, e aggrapparsi al parallelismo – un po’ frusto – della Vukovar come “Stalingrado croata”; o, ancora, azzardare che Vukovar è stata per la guerra in Croazia ciò che Sarajevo fu per quella in Bosnia-Erzegovina, solo una manciata di mesi dopo. Tutto suona così inadatto, però, inadeguato, persino inopportuno. Vero: ma se questo può servire per raccontare cosa fu Vukovar o anche solo a tenere viva la memoria, allora forse va bene così. Forse.
Vukovar oggi è una città nuova: 500 milioni di euro spesi e anni di lavoro l’hanno riportata al suo centro storico in stile barocco, alla chiesa dei santi Filippo e Giacomo riferimento della comunità cattolica, ai caffè allineati lungo il Danubio. Danubio che, qui, non è solo l’attrazione turistica dei battelli che arrivano da Vienna o Budapest, ma lavoro: quello che ruota attorno al più importante porto fluviale del paese e al cruciale snodo ferroviario ad esso connesso.
Ma trent’anni fa, proprio oggi, proprio il 18 novembre, Vukovar era un cumulo informe di macerie, impossibile riconoscere gli edifici, le case, l’ospedale, le fabbriche. Impossibile riconoscere lo stabilimento della Borovo – per esempio – che, da solo, dava da lavorare a migliaia di persone in una città che non conosceva disoccupazione, seconda solo alla slovena Maribor per Prodotto Interno Lordo nell’intera ex-Jugoslavia: 45 mila persone, 23 diverse etnie, serbi e croati quasi equamente rappresentati, anche se non contava un bel niente, anche se non interessava a nessuno. Solo la torre dell’acqua era sopravvissuta allo scempio, al punto da diventarne, poi, il simbolo: crivellata dalle granate, è ancor oggi rimasta com’era allora, un monumento dedicato alla follia di quei mesi. Con i suoi mattoni rossi incarna la sofferenza di migliaia di persone, non solo croati, va detto.
Quel 18 novembre del 1991 a entrare per primi a Vukovar non furono i soldati dell’Esercito Popolare Jugoslavo che per 87 giorni consecutivi avevano bombardato la città in uno scontro impari per le forze in gioco, seppure tra continui atti di diserzione e di rifiuto all’obbedienza, ultimi retaggi morali della Jugoslavia che fu. E’ forse proprio per questo che l”onore” toccò alle truppe paramilitari serbe, alle famigerate Aquile Bianche del criminale Vojislav Seselj e alle Tigri di uno Zeljko “Arkan” Raznatovic che coronava la sua carriera da assassino. Su entrambi non poteva incombere alcun dubbio di fedeltà, si sarebbe capito ancor meglio più in là.
Sul campo di battaglia un numero imprecisato di morti, da ambo le parti: almeno quattro mila secondo fonti attendibili, moltissimi i civili, circa un centinaio i bambini in una conta impossibile da chiudere. Un massacro che conobbe una tragica coda all’indomani della capitolazione quando almeno duecento persone furono prelevate dall’ospedale e trasportate di forza alla fattoria di Ovcara, una decina di chilometri a sud di Vukovar: qui, dopo ore di torture, furono passate per le armi e sepolte in una fossa comune i cui resti saranno scoperti solo un anno dopo.
Oggi quel sito è una lapide di marmo nera e un centro commemorativo la cui sala principale è rischiarata da una sola candela, perché se è forse vero che altrove “ogni cosa è illuminata” qui non è così e la gente fu ammazzata di notte e da quel buio non riemerse più. Il memoriale accoglie ogni anno decine di migliaia di visitatori da tutto il mondo, tassello di un tour del dolore che fa storcere più di un naso. Tantissime le comitive di studenti delle scuole croate, perché i programmi scolastici ministeriali l’hanno reso una tappa obbligatoria del percorso educativo nazionale.
Nonostante, infatti, una sentenza del Tribunale internazionale dell’Aja del febbraio 2015 abbia dichiarato che quanto successe a Vukovar non fu genocidio, la Croazia ha voluto, lo stesso, fare della città martire un proprio simbolo identitario. Ed è per questo che, dall’anno scorso, la data del 18 novembre è stata inserita nel calendario delle festività nazionali in aggiunta a quella dell’8 ottobre, giorno dell’indipendenza del paese.
È un riconoscimento che ha il sapore della restituzione, questo: furono in molti all’epoca, infatti, a sostenere che il neopresidente Franjo Tudjman avesse consapevolmente sacrificato la città ai serbi al fine di strappare il riconoscimento del mondo alla neonata Croazia indipendente: tra di loro Mile Dedakovic e Branko Borkovic che comandarono la strenua difesa della città e che, per questo, sono diventati personaggi tanto scomodi quanto leggendari. Che sia vero o meno conta poco, ormai: resta la costatazione che la caduta di Vukovar coincise con il contestuale riconoscimento statunitense dell’indipendenza della Croazia e preparò il terreno per l’analoga presa di posizione europea.
Per le strade della città si respira adesso un’aria di apparente normalità, come se tutto fosse tornato come prima. Seppure dissanguata da un’inarrestabile migrazione che s’è presa un terzo della popolazione, le proporzioni tra croati e serbi si sono ristabilite ai livelli d’anteguerra. Un tentativo di pacificazione etnica che ha avuto il suo primo atto simbolico già nel 2010 con il pellegrinaggio dell’allora presidente serbo, Boris Tadic, a Ovcara, con tanto di scuse ufficiali; e ancora, un tentativo che trova nell’obbligo costituzionale che prevede un vicesindaco emanazione della minoranza serba, una sua espressione anche politica e formale.
Ma è una calma apparente (come dimostrato dal contestato ritorno al cirillico), la giustizia processuale è rimasta a metà: in galera sono finiti solo i pesci piccoli, alimentando così un senso di ingiustizia che cova sotta la cenere. Sono diversi i carnefici che girano liberi per le per vie cittadine, nessuna collaborazione tra le magistrature croata e serba, meno che meno la volontà politica. Così come ancora adesso è impossibile trovare una lettura condivisa di quanto avvenne in quei mesi, tra i branitelji, i difensori della città, fautori della retorica mitizzante di quella resistenza e della successiva operazione Lampo (Operacija Bljesak) che restituì la città alla Croazia, e la propaganda serba che ancora adesso propugna la favoletta dell’intervento finalizzato a salvare la popolazione dagli ustaša, i fascisti croati. In mezzo nessuno spazio per i toni di grigio.
Il rischio, ora, è che Vukovar diventi un “cadavere imbalsamato”, come evocato dal giornalista Boris Dezulovic, “un futile totem di plastica che serve solo ad alimentare il senso di coesione nazionale e a incutere un timore reverenziale verso la patria”.
Sarebbe un’altra capitolazione, la seconda. E, forse, anche un’occasione perduta per fare i conti con la storia.
(Foto: la torre dell’acqua di Vukovar/Giorgia Spadoni)
Il 19 novembre del 1991 andai a Vukovar e nel mio rapporto a Roma (all’epoca ero addetto militare a Belgrado) scrissi ,tra l’altro, “Vukovar dovrebbe rimanere così come e’ quale monumento alla cattiveria e alla stupidita’ dell’uomo”.