Maestro e Margherita

Il Maestro e Margherita, il mio libro del cuore

Quando sono andato agli stagni Patriaršie, l’ho cercato. No, giuro. Voi direte che è la solita romanticheria da panettiere, di quelle che si scrivono in articoli come questo. Epperò è vero. Ho cercato la panchina dove il critico Michail Aleksandrovic Berlioz e il giovane poeta Ivan Nikolaevič Bezdomnyj, il “senza tetto”, hanno incontrato il diavolo. Ricordo un chiosco di bibite, ma non era vero. Forse era un succo all’albicocca. Ricordo un signore col pince-nez, ma mi sbagliavo. Ricordo di aver visto due parlottare e, pur non conoscendo il russo, mi sono seduto e ho chiesto: – Loro sono atei? – Sì, siamo atei, – mi rispose il primo sorridendo, mentre il secondo, più giovane, si capiva che stava pensando «Che rompiscatole, questo straniero!». Più in alto, non visto, un cartello diceva: “Vietato parlare con gli sconosciuti”.

Un miracolo

Il Maestro e Margherita non è un libro, è un miracolo. Così lo definì Eugenio Montale quando lo lesse, benché nella versione decurtata dalla censura sovietica. Un miracolo sopravvissuto a una stufa, nella quale Bulgakov bruciò la prima stesura del romanzo per poi riscriverlo a memoria lavorandoci complessivamente per dodici anni, con otto diverse redazioni, varianti e rifacimenti che la filologa Marietta Čudakova ha sapientemente messo in fila rovistando quaderni e minute. Un lavoro colossale quello della Čudakova, mancata lo scorso novembre, vittima del virus. Grazie a lei possiamo ricostruire la genesi di questo speciale tipo di miracolo, il romanzo, che dapprincipio mancava di tutto, e ruotava unicamente attorno alla figura di Woland, il diavolo.

Solo nel  1931 comparirà Margherita, “come uscita dalla terra”. In lei si percepisce il contorno di Elena Sergeevna, terza e ultima moglie di Bulgakov. Elena, miracolo nella vita dello scrittore, colei che tirerà fuori dalla stufa, dal cuore in fiamme del suo creatore, quello che è uno dei più grandi romanzi del Novecento, salvandolo infine, il libro e il suo autore, e facendo dire a Woland la celebre frase: “i manoscritti non bruciano“.

Una frase, quest’ultima, destinata a diventare il simbolo della letteratura russa del secolo scorso, sopravvissuta a censure, distruzioni, sequestri, grazie alla circolazione clandestina delle opere: è il fenomeno dei samizdat, copie ciclostilate o trascritte a mano, scambiate illegalmente tra amici e persone fidate, facendo circolare opere come Arcipelago Gulag e, appunto, il Maestro e Margherita.

Un’opera magmatica

La storia – come sottolineato da Eridano Bazzarelli, insegne slavista che a Bulgakov ha dedicato una monografia – è un opus compositum, in cui si intrecciano numerose vicende e si attua una ricerca filosofica profonda, quella che indaga il rapporto tra artista e potere, tra maschera e volto, tra verità e vanità. Ne emergono tre linee narrative principali: nella prima c’è il diavolo che mette a soqquadro una Mosca notturna e fantasiosa, facendosi beffe delle ipocrisie del regime in compagnia di Behemoth, gatto grosso come un maiale, paggio e buffone, e di Azazello, sicario zannuto con un osso di pollo nel taschino; poi c’è la storia di Gesù e Pilato, che occupa larga parte del romanzo; infine c’è l’amore tra il Maestro e Margherita.

Si tratta di tre sotto-romanzi a loro volta compositi, con scene minori che vivono in reciproca dipendenza ma dominati da una soggiacente forza unitaria. Come unitaria è l’anima profonda del romanzo la quale, coacervo di materiali vari, dalla lirica picaresca alla novella satirica, dalla tradizione religiosa a quella del romanzo filosofico, è tutta fusa in un unicum indistinguibile. Resta da dire della trama, ma la trama non ve la racconto, per chi volesse l’ha fatto – meglio di come potrei fare io – il professor Alessandro Barbero (video e podcast)

Pronto parla il diavolo, ehm, parla Stalin

Al centro di questa storia c’è il diavolo, Woland, figura demoniaca che, come ricorda Bazzarelli, nasce dal doppio ascendente faustiano e gogoliano: drammaticamente europeo il primo; squisitamente russo il secondo, col suo grottesco e folkloristico che tanti scrittori ha influenzato. Un diavolo con cui il Maestro, che è scrittore incompreso, emarginato e squattrinato, proiezione dello stesso Bulgakov, deve scendere a patti e venire infine salvato. Come il Maestro, anche Bulgakov ha dovuto accettare la salvezza che gli è venuta da un altro demonio, ma in carne e ossa, cioè Josif Stalin il quale, dopo il suicidio di Majakovskij, gli telefonerà a casa dicendogli, grossomodo, queste parole: «Pronto Bulgakov, sono Stalin. Abbiamo ricevuto la sua lettera. Ma è proprio vero che lei chiede di andarsene all’estero? Siamo così cattivi?». E Bulgakov risponde: «Ho pensato molto negli ultimi tempi se uno scrittore russo possa vivere fuori dalla sua patria. E mi sembra di no». Da quel momento Bulgakov troverà impiego al Teatro d’Arte di Mosca, evitando di spararsi una rivoltellata.

Tra le due dimensioni

In una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio, un uomo soffre. Tra montagne di roccia, con la sola compagnia di un cane, da millenni egli soffre la sua orrenda colpa ma spera che un giorno gli verrà concesso il perdono. È il quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato.

Dentro la dimensione fisica del tempo, il Maestro ha invece scritto un romanzo che ha come argomento proprio la sofferenza di Pilato, la sua terribile emicrania, l’incontro con un vagabondo, forse uno stregone, un certo Jesuah, detto Hanozri, il Nazareno, destinato a una condanna che Pilato non vorrebbe ma che la viltà gli ordina di eseguire. E nelle parole che il Nazareno gli rivolge c’è abbastanza per meritarsi la croce, o la censura sovietica: “Ogni potere è violenza sugli uomini”. Il Maestro però sa che Pilato aspetta una parola di liberazione, sa che tra alte montagne di roccia egli attende il perdono, e si fa carico di dargliela, quella parola.

Ma il suo romanzo resta incompiuto, gli editori lo rifiutano, e il Maestro ne brucia il manoscritto – come Bulgakov – e poi, folle e disperato, viene ricoverato in una casa di cura per malattie mentali. Qui incontra Ivan Nikolaevič Bezdomnyj, il senza tetto, ammattito dopo un incontro diabolico agli stagni Patriaršie, e gli racconta del suo romanzo e di come sarebbe dovuto finire, con le parole “il quinto procuratore di Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato”.

Il resto, non lo diremo. Ma che i manoscritti non bruciano ormai lo sappiamo, e il romanzo del Maestro tornerà intatto sulla mano di Woland e nella mente di Bezdomnyj il quale, anni dopo, completamente rinsavito, ancora sognerà nelle notti di luna piena “il quinto procuratore di Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato”. Con le stesse parole con cui si conclude il romanzo del Maestro, si conclude anche quello di Bulgakov. E da qualche parte, nella dimensione senza tempo né spazio che lo imprigiona, Pilato è finalmente libero dal suo tormento.

L’amore onnipotente

“L’amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpì subito entrambi. Così colpisce il fulmine, così colpisce un coltello a serramanico!”. Con queste parole il Maestro parla del suo incontro con Margherita, creatura appassionata e autentica, contrappeso terrestre all’universo oltreumano del romanzo bulgakoviano. Il loro amore assume valori simbolici e mistici di salvezza. Una salvezza che non viene dal Cielo, ma dalla terra. Non dalla donna angelicata, ma dalla strega in cui Margherita si trasforma conoscendo infine veramente sé stessa. Un amore magico, una scoperta della profondità da cui l’amore attinge, possibile soltanto dopo aver conosciuto il male. Margherita accetterà infatti di essere la Regina di un sabba moscovita, nuda e bellissima, pur di riavere il suo amato. Femmineo di Dio, Margherita diventa così il segno della speranza, della pietà e dell’amore in un mondo – in un’opera – nata dalla solitudine e dal pessimismo.

Bolšaja Sadovaja n°10

Tutto sarà giusto, su questo è costruito il mondo” afferma perentorio il demonio. E d’amore e giustizia è foriera la sua venuta. Come un Cristo rovesciato, un figlio della terra, Woland denuda e ribalta il mondo ipocrita della Mosca sovietica, e porta verità. Nell’appartamento numero cinquanta, al civico 302 bis della Bolšaja Sadovaja, dove il diavolo aveva preso temporanea dimora, oggi non abita più nessuno. A dire il vero, nessuno ci ha mai abitato dopo di lui, che il civico 302 bis non è mai esistito. L’appartamento di Bulgakov invece esiste, anche quello è il numero cinquanta, ma al civico dieci della stessa via. Ci vado come alla ricerca di un segreto. E non lo trovo. È il solito appartamento di quel tipo, ci hanno messo un bar al posto del tinello. La verità non dimora più lì, e amore e giustizia non sembrano essere più di casa da nessuna parte. Ma “che cosa sarebbe il bene se non ci fosse il male, e come apparirebbe la terra se non ci fossero le ombre?”

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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