2 agosto 1952, Stadio Olimpico di Helsinki: 60.000 persone assistono alla finale del torneo di calcio dei Giochi della XV Olimpiade. Il pallone è fermo sul piccolo dischetto posizionato a undici metri dalla porta: a prendere la mira c’è Ferenc Puskás. Dopo una rincorsa dritta come un fuso, l’asso ungherese poggia tutto il suo peso sulla destra pronto a calciare, ma all’ultimo centesimo di secondo allarga il piatto sinistro e tira dall’altra parte. Tutti, dagli spettatori all’arbitro, abboccano alla finta di Puskás, tranne uno, il più importante: Vladimir Beara, il portiere della Jugoslavia.
La ballerina con le mani d’acciaio
Cinque anni prima, il giovane Beara è a Spalato. Non è originario del luogo, anzi è nato a 50 chilometri di distanza, in un piccolo villaggio della Dalmazia dagli abitanti di discendenza serba: nel gergo cittadino sarà indicato, in modo infamante, come un vlaj. Non cambia nulla unirsi alla compagnia Pristina della IX Divisione dei partigiani di Tito. Dopo aver visto gli orrori della guerra, torna a Spalato e finisce la scuola da elettricista; nel tempo libero pratica la danza classica. Vladimir però è anche un tifoso dell’Hajduk, e spesso si allena nelle vicinanze del loro campo da gioco. Un giorno il portiere titolare non rimane tra i pali a fine sessione: serve un sostituto per far tirare ai giocatori rigori e punizioni. L’allenatore Jozo Matošić guarda tra i giovani che osservano l’allenamento, e indica quel diciottenne smilzo che spesso bazzica lì: “Vieni ragazzo, stai in porta. Ti prometto che non tiriamo forte”.
Un anno dopo, è già il portiere titolare dell’Hajduk. Si allena ogni giorno con una pallina di gomma grande quanto quelle del baseball americano. Il coach gliele tira da vicino, da lontano, di taglio o potenti: Beara non ne lascia cadere una. È troppo agile, e vola senza paura di cadere. “Una ballerina con le mani d’acciaio”, un uomo con la spina dorsale fatta di gomma. Difende sulle punizioni senza la barriera; si lancia in uscita senza timore di incocciare negli attaccanti; si fionda sui tiri avversari con una grazia sconosciuta.
Quel vlaj dalmatino non è visto bene in città. Non gli è mai permesso di scordarsi le sue radici. Anche quando si presenta a Wembley indossando la maglia numero 1 della Jugoslavia e con una serie di parate impressionanti inchioda gli inglesi sul 2-2, la prima volta che i sudditi di Sua Maestà non vincono in casa. Anche durante quelle Olimpiadi del 1952, o ai Mondiali del 1954 dove la Jugoslavia esce ai quarti con la Germania Ovest, dopo aver dominato la partita. Nonostante tutto con la casacca dell’Hajduk vince tre campionati jugoslavi. È talmente forte che Zamora, il leggendario portiere catalano, lo incorona migliore al mondo; lo confermerà anni dopo anche il sovietico Lev Yashin alla cerimonia del Pallone d’Oro; per tutti, tranne che per i suoi concittadini, Vladimir Beara è semplicemente “il Grande Vladimir”.
Il grande tradimento
Tutto questo non basta. Vladimir Beara rimane un vlaj, uno che c’entra poco o nulla con i veri croati di Spalato. In città lo guardano sempre con occhi ostili, i giornali gli rinfacciano costantemente le sue origini serbe. Lui si fa scivolare tutto addosso, duro come le rocce della sua Dalmazia, ma rimane un essere umano e a un certo punto la misura è colma. Dopo la vittoria del terzo titolo, nel 1955, viene organizzato un ricevimento formale in cui il presidente dell’Hajduk Markovina ringrazia personalmente ogni giocatore. Spende qualche parola per tutti, Beara non è però neanche nominato. Quando ne chiede spiegazione, Markovina lo liquida così: “Tu che vuoi, sei un portiere normale come gli altri due che abbiamo. Perché dovrei parlare di te”.
Vladimir non ci sta. Il giorno dopo la premiazione chiama Otto Hoffmann, dirigente della Dinamo Zagabria, e si offre a lui. Ma Hoffmann sa che non è solo una questione di calcio, è qualcosa di più. Così gli dice che accetterebbe solo se la gente di Spalato, oltre quella di Zagabria, gli desse l’ok. Beara allora compone il numero del leggendario Doktor O, quell’Aca Obradović dirigente della Stella Rossa, che lo accoglie a braccia aperte. Farebbe di tutto per averlo, tanto che si dice che arrivi a vendere il bus della sua squadra per finanziare il trasferimento. Dovrà organizzarne l’arrivo in gran segreto, spedendo un furgone scuro che preleva il portiere nel cuore della notte e lo porta verso Belgrado.
Quando la notizia si sparge per la Jugoslavia diventa subito uno scandalo nazionale. Molti spalatini giurano che se vedessero entrare Beara in città lo ucciderebbero. I tifosi che si sono tatuati il suo nome, insieme a quelli degli altri eroi dell’Hajduk, rimuovono l’inchiostro con i coltelli. La prima volta che gioca di nuovo in Croazia, gli lanciano monetine da cinque dinari per tutti i novanta minuti. Beara vincerà comunque quattro titoli e due coppe nazionali con la maglia della Stella Rossa, cementando ancor di più il suo status di portiere fenomenale.
Spalato, un amore mai sopito
Vladimir Beara si ritira dal calcio giocato a metà anni Sessanta. All’inizio del decennio, ormai trentaduenne, gli venne concesso di trasferirsi in Germania, ma un infortunio grave alle gambe lo tiene sostanzialmente fermo. Così impara presto il mestiere di allenatore: sarà proprio in questa veste che, nel 1970, farà il suo ritorno a Spalato. La dirigenza dell’Hajduk è spinta dal partito ad assumerlo come vice, così da dare un segnale contro i crescenti malumori etnici che si registrano nella regione. Beara sperimenta di nuovo cosa vuol dire vivere in quella città se si è di discendenza serba: insulti, minacce di morte, sputi allo stadio. Alla fine il suo ritorno dura solo due anni: nonostante la vittoria del titolo nel 1971, viene spedito via senza rimpianti.
La sua carriera da allenatore continua, fino ad arrivare in Camerun a fare il ct della Nazionale, ma alla fine tornerà di nuovo a casa. Per l’Hajduk, però, rimane persona non desiderata. Emblematico è quel che succede nel 1995: si gioca a Spalato contro l’Italia, e Tuđman vuole che i due vecchi assi dell’Hajduk Beara e Matošić presenzino alla partita; l’ex portiere accetta felice, ma quando arriva allo stadio viene fermato all’entrata e scopre che il suo nome è stato cancellato dalla lista degli invitati.
La storia un po’ triste di Vladimir Beara termina l’11 agosto 2014, dopo aver subito più attacchi di cuore. Si monta un caso anche sul suo luogo di sepoltura, conteso tra cattolici e ortodossi. Per fortuna nulla di tutto questo può più toccarlo, come non lo raggiunge più l’odio della sua Spalato. Solo negli ultimi anni l’Hajduk ha deciso di riconoscerne la leggenda: troppo poco, troppo tardi.
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