Preoccupazione. Questo il sentimento che aleggia ultimamente a livello europeo sui rapporti tra Serbia e Kosovo. Una preoccupazione espressa chiaramente dalla presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen il mese scorso durante una conferenza stampa congiunta con il primo ministro kosovaro Albin Kurti.
La conferenza si era svolta pochi giorni dopo lo scontro provocato dalla decisione di Pristina di imporre ai veicoli serbi in entrata nel paese l’apposizione di una targa provvisoria con la dicitura “Repubblica del Kosovo”. La vicenda era stata superata grazie all’intervento dell’Unione Europea la cui mediazione, più che risolvere il problema e contribuire a distendere il clima tra Belgrado e Pristina, ha rappresentato solo l’ennesimo palliativo mettendo ancora una volta a nudo tutti i limiti del famoso “dialogo” mediato dall’UE.
La conferma di ciò si è avuta meno di un mese dopo. Lo scorso 13 ottobre, appena una settimana prima delle elezioni amministrative kosovare di domenica 17 ottobre, un’operazione di polizia contro il contrabbando è sfociata nel nord del paese, a maggioranza serba, in uno scontro a fuoco tra polizia e residenti serbi con un bilancio di oltre 20 feriti.
Campagna elettorale o reale escalation?
Sono passati ormai 22 anni dall’Accordo di Kumanovo che poneva fine alla guerra tra gli albanesi del Kosovo e la Repubblica Federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro) guidata da Slobodan Milošević. Anche se le violenze, da una parte e dall’altra, si sono fatte negli anni sempre più rare, il conflitto a livello politico ed economico ha spesso raggiunto livelli preoccupanti, per parafrasare la Von der Leyen.
Le cause hanno origine sia per aspetti di politica interna ai due paesi che del più complessivo processo di normalizzazione a guida europea. Serbia e Kosovo stanno infatti attraversando due momenti contrapposti. Mentre a Belgrado il panorama politico sta vivendo una lunga fase di stabilità con lo strapotere, ininterrotto dal 2012, del presidente Aleksandar Vučić e del suo Partito Progressista Serbo (SNS), Pristina si trova ad affrontare una storica fase di trasformazione, la cui profondità è ancora tutta da valutare.
Le elezioni del febbraio scorso hanno registrato infatti la prima sconfitta dei partiti tradizionali (LDK e PDK in particolare) in favore del partito della sinistra nazionalista Vetevendosje (Autodeterminazione). Il partito guidato da Albin Kurti, per anni all’opposizione, ha da subito assunto un atteggiamento di forte rigidità nei confronti di Belgrado, basato soprattutto sul concetto di “reciprocità”. In tal senso va letta la richiesta di pieno riconoscimento avanzata da Kurti al presidente Vučić lo scorso giugno a Bruxelles.
Dall’altro lato, Vučić continua a mostrarsi pubblicamente attento al dialogo salvo poi gettare benzina sul fuoco ogniqualvolta se ne presenti l’occasione. Quanto accaduto durante l’operazione della polizia kosovara della settimana scorsa ne è la dimostrazione. Una classica operazione di polizia, condotta in tutto il paese ma che ha provocato la dura reazione dei residenti serbi, sostenuti e rassicurati da Belgrado. In una conferenza stampa tenuta l’indomani a Raska, Vučić si è rivolto ai serbi kosovari chiedendo di “non reagire alla violenza, ma se [le autorità del Kosovo] iniziano la violenza, proteggete la vostra gente e noi saremo con voi“. Una frase che ricorda, per fortuna solo lontamente, al “nessuno oserà più picchiarvi” pronunciata da Milošević durante una sua visita in Kosovo nel 1987.
Sia Kurti che Vučić hanno tutto l’interesse ad alzare il livello dello scontro, sia per compattare il proprio elettorato sia per provare ad ottenere il massimo dalla mediazione europea. Una strategia che, al momento, non sembra dare i frutti sperati come confermato dai risultati del primo turno delle elezioni amministrative kosovare di domenica che hanno registrato un calo dei consensi per Vetevendosje.
E l’Unione Europa?
In questo contesto l’Ue continua a mostrarsi del tutto incapace nel contribuire a distendere i toni e ottenere concreti passi in avanti. Emblema di questo stallo è la parziale applicazione dell’Accordo di Bruxelles del 2013. Un’intesa non certo risolutiva ma che avrebbe potuto evitare alcune delle recenti tensioni. Ancora troppo spesso l’Ue si ritrova a inseguire gli eventi, a mettere toppe lì dove si creano nuove fratture senza riuscire a prevenire le tensioni. La stessa vicenda delle targhe era prevedibile ai livelli più alti, data la scadenza nel 2021 del rilascio delle targhe ONU e la “reciprocità” ribadita più volte da Kurti.
A questo si aggiunga un processo di adesione che vive, ormai da anni, un vero e proprio stallo anche a causa delle scelte scellerate di alcuni paesi membri. Un progetto concreto e serio dovrebbe prevedere anche il coinvolgimento degli altri attori globali capaci di esercitare ancora una certa influenza verso i propri partner: gli Stati Uniti in Kosovo, Russia e Cina in Serbia.
Per giungere a una soluzione definitiva serve un’azione capace di concedere qualcosa ad entrambi gli attori in gioco così da spingerli a rinunciare a iniziative unilaterali e forzate. Per fare ciò serve però mettere d’accordo tutti i 27 paesi membri. E forse è proprio questo l’anello debole di tutta la catena.
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