Il ritiro dall’Afghanistan ha fatto tornare alla ribalta l’annosa questione della costruzione di una difesa comune europea. Un tema che si perpetua dai tempi in cui l’allora segretario di stato americano Henri Kissinger (in una frase a lui attribuita e mai confermata) si chiedeva ironicamente: “Chi chiamo se voglio parlare con l’Europa?” Una questione resa ancora più urgente dalla firma dell’accordo AUKUS tra Australia, Stati Uniti e Regno Unito – che ha privato la Francia di un contratto di fornitura di sottomarini – e dalla figura fatta dall’UE proprio nello scenario afgano, dove è rimasta inerme adeguandosi alle decisioni prese da altri attori internazionali.
Il ritorno alla centralità del tema è stato confermato dal suo inserimento nel discorso sullo stato dell’Unione tenuto dalla presidente Ursula Von der Leyen. Altri importanti leader europei, come Mario Draghi e Emmanuel Macron, ne hanno reiterato la rilevanza rilasciando dichiarazioni in favore di una maggiore integrazione. La tesi di chi auspica la costruzione di una difesa europea ha come argomentazioni la crescente obsolescenza della NATO, ormai in aperta crisi identitaria, e la perdita di coincidenza degli interessi dell’Alleanza atlantica (in primis gli USA) con quelli dell’Unione Europea.
Russofobia e atlantismo
Tuttavia, uno dei grandi ostacoli all’implementazione di una forza di difesa comune europea resta la contrarietà dei paesi baltici. Estonia, Lettonia e Lituania si oppongono, in una posizione ferma e coerente nel tempo, alla dotazione di una forza militare in seno all’UE. Nella visione geopolitica delle repubbliche baltiche, permeata da un sentimento russofobico sorto sin dalla dissoluzione dell’URSS e infiammatosi con la virata imperialistica della Russia di Vladimir Putin, non vi può essere alcuno strumento di difesa alternativo alla NATO. Se l’Unione Europea ha sempre avuto un significato politico, economico e culturale, l’ingresso nell’Alleanza Atlantica è stata vista come “l’altra faccia della medaglia”, rappresentando per Tallinn, Riga e Vilnius quella garanzia di hard security contro una storia che le ha spesso viste sopperire di fronte ad invasori esteri ben più grandi di loro.
Le tre repubbliche baltiche mantengono quindi una posizione “NATO First”, confermata dal livello di spesa che i tre paesi (al contrario di molti altri partner) dedicano all’Alleanza, spendendo almeno il 2% del proprio PIL nazionale. Inoltre, il legame con la NATO va di pari passo con la relazione che intrattengono con gli Stati Uniti. Un tipo di rapporto “do ut des” che le ha viste impegnarsi in teatri di guerra lontani, anche dal punto di vista degli interessi, come l’Afghanistan o l’Iraq.
La debolezza europea
Un altro fattore che rende i paesi baltici diffidenti nei confronti di una politica di difesa comune europea vi è la lentezza con cui la sua forma embrionale (la PESD poi diventata PSDC) ha risposto a crisi internazionali come quella del 2008 in Georgia o quella del 2014 in Crimea. Durante la crisi ucraina, in particolare, la divergenza delle posizioni degli stati membri impedì un intervento tempestivo, tramite le forze d’intervento rapido in dote all’UE, che fermasse l’escalation verso il conflitto.
È per tale ragione che le dichiarazioni dei leader baltici non vanno nella direzione indicata da paesi come l’Italia e la Francia, come testimoniano le recenti affermazioni di Kersti Kaljulaid, presidente estone in uscita e, secondo Politico, possibile candidata alla successione del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Per Kaljulaid. “La Nato ci garantisce vari livelli di deterrenza nella difesa territoriale [..]. L’Ue può fare molto sul fronte della mobilità militare. Si tratta di uno sviluppo positivo, complementare alla Nato.” Si evince da queste parole, ultima di una lunga serie di dichiarazioni, come la posizioni baltica sia quella di dare assoluta priorità alla Nato in materia di difesa, lasciando un ruolo soltanto complementare all’Unione Europea.
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