Le prossime elezioni politiche in Bosnia Erzegovina sono alle porte e, puntualmente, il paese è attraversato da un’ondata di retorica separatista, di vere o presunte minacce di secessione, di vere o presunte minacce di guerra e di chi sa cos’altro. Una storia che si ripresenta sempre uguale a sé stessa, un rito frusto, trito e ritrito, che però non diverte più nessuno e che, di certo, non serve al paese. Una retorica buona solo per rinfocolare gli animi, rinsaldare il sentimento di appartenenza, chiudersi nel fortino in difesa dei presunti assedianti e, in ultima analisi, rinsaldare il potere di chi già ce l’ha.
Il casus belli: negare Srebrenica sarà reato
Il casus belli, a questo giro, è stata l’imposizione di un emendamento al Codice penale per bandire la negazione pubblica, l’apologia, la banalizzazione o la giustificazione del genocidio (di Srebrenica), dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra. Un emendamento imposto dall’uscente Alto Rappresentante (OHR) per la Bosnia Erzegovina, l’austriaco Valentin Inzko, prima di cedere il testimone al tedesco Christian Schmidt all’inizio di agosto.
Un atto di forza con cui Inzko ha voluto tener fede alla solenne promessa fatta alle Madri di Srebrenica e con la quale l’ex Alto Rappresentante ha voluto superare l’impasse generata dal voto contrario al medesimo emendamento con cui, l’aprile scorso, si era espressa la Camera dei popoli del parlamento bosniaco (con l’opposizione dei principali partiti nazionalisti serbo-bosniaci e croato-bosniaci). L’emendamento voluto da Inzko finalizza, nella sostanza, un tentativo in atto fin dal 2009 e prevede pene detentive da tre mesi a tre anni per i trasgressori, estendendo il divieto di assegnare riconoscimenti a persone condannate per genocidio e crimini contro l’umanità, così come la possibilità di intitolargli vie, edifici o luoghi pubblici in genere.
Le reazioni a caldo
Come era facile attendersi la reazione di Milorad Dodik, membro serbo-bosniaco della presidenza di Bosnia Erzegovina, non s’è fatta attendere e si è concretamente compiuta nell’immediato boicottaggio delle istituzioni statali: presidenza, parlamento e consiglio dei ministri. Nella sostanza i rappresentanti serbo-bosniaci, pur continuando formalmente a far parte di queste istituzioni, non partecipano più ai lavori e alle votazioni e hanno, di conseguenza, causato la totale paralisi istituzionale del paese.
Una presa di posizione – quella di Dodik – accompagnata da parole durissime rivolte soprattutto alla comunità internazionale che “non può imporre le leggi” e che deve rendersi conto che “la Bosnia, istituita dai paesi occidentali in violazione del diritto internazionale e della volontà delle persone, è inesorabilmente sulla strada della dissoluzione”. Financo a disconoscere l’autorità del nuovo Alto Rappresentante Schmidt definito come un “falso rappresentante venuto senza il consenso del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”.
Ma Dodik non ha lesinato dichiarazioni con lo sguardo rivolto all’interno del suo paese e soprattutto, come si diceva, all’imminente tornata elettorale. Ecco, allora, il ritorno alla promessa di un referendum sull’indipendenza per “rendere l’entità, uno stato” e – ancora – le frasi che evocano il sogno di Grande Serbia; Serbia con cui “la cooperazione è all’ordine del giorno e molto intensa”. Non è la prima volta, ma tant’è.
L’escalation di questi giorni
Ma è nelle ultime settimane che l’offensiva di Dodik ha preso nuovo vigore: oltre a riconfermare l’indisponibilità a rientrare attivamente nelle istituzioni statali, Dodik ha anche paventato il ritiro dell’accordo sull’adesione al consiglio della magistratura bosniaco, nonché il ritiro dei soldati serbo-bosniaci dall’esercito statale.
Se il primo punto porterebbe l’intero paese al definitivo caos politico e legale – uno scenario già definito di “mostarizzazione”, ovvero di congelamento dello status quo – è quello relativo all’esercito che assume una connotazione, anche simbolica, di primaria importanza. L’ipotesi che la Republika Srpska possa formare un esercito autonomo evoca, infatti, scenari di guerra e richiama alla memoria il recente passato del paese. Sebbene Dodik abbia reiteratamente detto di “non volere la guerra”, resta il fatto che quest’ulteriore tassello non può far altro che esacerbare i rapporti tra le due entità dello stato, avvicinandoli sempre di più ad un punto di non ritorno.
E il mondo?
Nella sua narrazione ultranazionalistica, Dodik può avvantaggiarsi di almeno due fattori: da una parte il progressivo disinteresse statunitense per i Balcani, dall’altra l’atteggiamento contraddittorio dell’Unione europea. Se la politica del presidente americano, Joe Biden, ricalca, di fatto, il moto trumpiano dell’”America first” e sembra concentrarsi piuttosto sull’area pacifica, quella europea appare balbettante, riflettendo – nonostante la sbandierata comunanza – la divisione di vedute tra i paesi comunitari circa l’opportunità di completare il processo di allargamento dell’Unione europea agli stati dell’area e alla Bosnia in primis (attualmente non ha neppure la candidatura a paese membro).
Ed ecco, quindi, che la prospettiva dell’allontanamento dall’Europa si trasforma in linfa vitale per rivitalizzare le narrazioni nazionalistiche di qualsivoglia segno e origine. Quella di Dodik, soprattutto, ma non solo. La retorica del presidente serbo-bosniaco, infatti, trova sponda in una radicalizzazione del linguaggio, uguale e contraria, di buona parte dei rappresentati dei partiti bosgnacchi. E a fronte di un Dodik che parla come se fosse il leader di un paese sovrano – la Republika Srpska – affermando di “dover rifiutare tutto ciò che è dannoso per la RS” fanno eco diversi esponenti politici bosgnacchi che rinsaldano i ranghi ricordando che “la guerra è iniziata in una situazione simile”.
Da un parte e dall’altra, insomma, si affilano le armi per le imminenti elezioni e, si sa, puntare alla pancia del paese porta sempre buoni frutti in termini di consensi. E pazienza tutto il resto.
Foto: Eunews