Belgrado, esterno giorno, è il 12 marzo la primavera è dietro l’angolo, l’anno il 2003. Un uomo sta entrando nella sede del parlamento, cammina a fatica, si aiuta con le stampelle. Nel palazzo di fronte, al civico 14 di via Admiral Geprata, un altro uomo ha un fucile in mano, è di grosso calibro, sa come usarlo. L’ha fatto spesso. Fa fuoco, due colpi: bastano, uno va dritto al cuore.
Due uomini a confronto
L’uomo con le stampelle è Zoran Djindjic, quello col fucile Zvezdan Jovanovic. Djindjic è il capo del governo serbo, è in carica da due anni: filosofo, fondatore e leader del Partito Democratico (DS), è stato tra i principali oppositori dell’ex presidente Slobodan Milosevic, il suo contributo al rovesciamento del dittatore è stato determinante. È soprattutto merito suo se si è arrivati al 5 ottobre del 2000, la data simbolo della destituzione di Milosevic. Ed è sempre lui che guida la variegata coalizione che nel dicembre dello stesso anno stravince le elezioni portandolo alla guida del governo serbo, il primo della transizione democratica. Djindjic morirà dopo un’ora di agonia.
Zvezdan Jovanovic era con l’Unità per le operazioni speciali (JSO) nel 1991 quando cominciò il conflitto in terra di Jugoslavia, ed è stato tenente-colonnello dei Berretti Rossi, una delle innumerevoli formazioni paramilitari serbe. Ma è soprattutto grazie alla propria attività nel conflitto in Kosovo – sua terra natale – che s’è meritato il soprannome di snake, il serpente.
Djindjic sapeva di essere un morto che cammina. Era stato lui stesso, solo poche settimane prima, a preconizzare il suo assassinio: un’intuizione fin troppo facile, purtroppo. La sua lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, infatti, era pubblicamente dichiarata e irreversibile. Il giorno che fu ammazzato si sarebbe dovuto firmare un mandato di cattura per i componenti del Clan di Zemun, il più potente gruppo criminale organizzato dell’ex-Jugoslavia, cui lo stesso Jovanovic era affiliato. Ma non è tutto: le coperture politiche sono evidenti, troppo fastidiosa l’opera riformista avviata da Djindjic, troppo visionaria la sua idea di una Serbia stato di diritto, moderno e membro dell’Unione europea. E, soprattutto, troppo fitto il legame tra certa politica e il malaffare, pesantissima eredità dell’era miloseviciana. Arrestato pochi giorni dopo i fatti, Jovanovic è stato condannato in via definitiva a 40 anni dalla Corte d’appello di Belgrado nel 2009: con lui diversi altri componenti del clan – incluso il mandante Milorad Ulemek – per quasi quattro secoli complessivi.
La petizione per un assassino
Oggi c’è chi lo vorrebbe di nuovo libero e che per farlo non esita a promuovere una raccolta firme su una petizione che ne chiede l’immediata scarcerazione. Quel qualcuno è Dragan Vasiljkovic – Kapetan Dragan – altro comandante di un’altra unità paramilitare serba (i “ninja di Knin”, knindze), anch’egli condannato a 15 anni di reclusione per crimini di guerra negli anni ’90 nella regione della Krajina, in Croazia.
Sufficientemente famoso per diventare il protagonista di un fumetto ma non abbastanza per farsi eleggere nel parlamento serbo – a differenza dell’altro criminale di guerra effettivamente diventato deputato, Vojislav Seselj – Vasiljkovic appena rientrato in Serbia dal soggiorno nelle carceri croate si è subito messo all’opera per difendere i “serbi perseguitati”: il primo della lista è proprio Jovanovic, “eroe che ha combattuto a nome dei serbi”.
Il 5 ottobre scorso – non una data casuale, con ogni evidenza – un gruppo di appartenenti all’omonima “associazione Kapetan Dragan” si è dato appuntamento davanti al ristorante Ruski Car nel pieno centro di Belgrado, col banchetto d’ordinanza e la “protezione” assicurata da un manipolo di ragazzotti in maglia nera e muscoli ben oliati. C’è pure l’omaggio d’una maglietta con l’effige del serpente, nel caso, buona per nostalgici e feticisti. Pochissimo riscontro, a dir la verità – neanche un migliaio di firme in oltre due settimane da quando l’istanza è attiva – e, di contro, parecchia indignazione da parte di diversi passanti.
L’ombra di Vucic e dello Stato
Aleksandar Vucic, presidente della Repubblica, tace ma da più parti si paventa che la regia di questa operazione sia proprio la sua. E’ Vesna Pesic, sociologa ed ex-parlamentare del Partito Liberaldemocratico, la prima a sostenere che dietro alla petizione ci sia, in realtà, “la leadership dello stato serbo che odia Djindjic e il 5 ottobre” e, in particolare, che Vucic “sta facendo della Serbia uno stato criminale e mafioso rinnovando l’idea radicale di una Grande Serbia”.
Un’opinione condivisa da Maja Stojanovic – direttrice di Iniziative Civiche, un’associazione di cittadini per la democrazia e l’educazione civica – che è convinta che, al di là del silenzio di facciata, lo Stato serbo stia “parlando e sostenendo la cosa, minando tutto quello che ci ha portato il 5 ottobre”. Ed è proprio di “revisionismo” che parla esplicitamente anche Aris Movsesijan, presidente di Partito Nuovo, un movimento di ispirazione social-liberale che ha organizzato una piccola marcia in memoria dell’ex-premier Djindjic: “un gioco con il quale Vucic sta cercando di distogliere l’attenzione dai problemi cruciali della Serbia”. A non aver dubbio alcun è anche Zoran Zivkovic, cui toccò sostituire Djindjic alla guida del paese in quel drammatico momento storico: “tutto questo è un’azione del regime di Aleksandar Vucic”.
Le elezioni presidenziali alle porte
L’iniziativa promossa da Vasiljkovic non ha alcuna possibilità di successo, questo è chiaro: lo sa bene Kapetan Dragan, lo sa benissimo Vucic stesso. È stata, d’altra parte, la stessa Corte d’appello di Belgrado a ricordare che Jovanovic non può chiedere la libertà condizionale fino alla fine del 2029. Ma non è questo il punto: ancorché nitidamente esemplificativa del clima politico e sociale che si vive in Serbia da dieci anni a questa parte (senso di impunità, arroganza del potere costituito, contraddizione tra la retorica di governo incentrata su una millantata visione di futuro e il suo continuo ripiegamento al passato), l’operazione ha un fine tutto politico.
Le elezioni presidenziali sono alle porte ed è su quel tavolo, ora, che si gioca la partita. Vucic è conscio del fatto che certi temi come la glorificazione degli eroi di guerra e il ritorno alla Grande Serbia sono elementi divisivi ma che, al contempo, godono di un ampio bacino di consenso. Così come sa bene che la nascita improvvisa di gruppi e gruppetti di ispirazione ultranazionalista fanno al caso suo poiché drenano e disperdono voti e, di conseguenza, puntellano il suo potere.
La petizione è uno stratagemma, una tessera del mosaico di mosse e contromosse che di qui ai prossimi mesi comporranno la strategia elettorale di Vucic. E che, assai probabilmente, lo terranno al potere per un altro mandato.
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