C’è una foto che nei giorni scorsi ha fatto il giro del mondo suscitando un vespaio di polemiche, protagonista il campione di tennis serbo, Novak Djokovic. In quella foto, pubblicata dal sito bosniaco Faktor, il giocatore non è intento a sfoggiare uno di quei colpi che l’hanno reso famoso nel mondo portandolo a scalare la classifica del tennis, finanche a diventare uno dei più forti tennisti di sempre. No, smessi i calzoncini, Djokovic veste un bell’abito grigio e una camicia bianca; l’occasione è di quelle che richiedono un dress-code adeguato, d’altra parte: un matrimonio. È seduto a tavola: alla sua destra un signore robusto, a occhio e croce nei suoi sessanta, guarda distratto l’obiettivo con un’elegante cravatta rossa annodata al collo.
Quell’uomo
Ma quell’uomo non è un commensale qualunque, quell’uomo è Milan Jolovic, serbo bosniaco di Sokolac, Sarajevo Est, Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba di Bosnia. Di più: quell’uomo non è un compagno qualunque, quell’uomo è l’ex-comandante di un’unità paramilitare serbo-bosniaca, era a Srebrenica nel luglio del 1995. E ancora: quell’uomo non è un uomo qualunque, quell’uomo salvò Ratko Mladic che di Srebrenica fu il boia, un’azione che gli valse il soprannome di “Leggenda”, l’eterna gratitudine dei nazionalisti di ieri e di oggi e l’amicizia imperitura dello stesso assassino. Le truppe guidate da Jolevic erano note come “Lupi della Drina”: Jolevic evidentemente condivideva con il famigerato Zeliko Raznatovic – Arkan – e le sue “Tigri”, la stessa malcelata passione per le bestie feroci. Forse per immedesimazione.
Mai condannato dai giudici internazionali dell’Aja, oggi Jolevic si impegna attivamente nelle associazioni nazionalistiche che operano per impedire l’arresto degli ex-combattenti serbi accusati di crimini di guerra ed è stato anche candidato per l’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD) di Milorad Dodik, membro della presidenza di Bosnia nonché irriducibile negazionista del genocidio di Srebrenica. Nella stessa occasione, peraltro, Djokovic e Dodik si sono fatti immortalare assieme.
Cosa passa per la testa di Djokovic?
All’indomani della diffusione di quello scatto e delle controversie che ne sono seguite, lo staff di Djokovic ha fatto prontamente sapere che il giocatore non era consapevole di chi si fosse accomodato al suo fianco. Lo stesso giocatore ha preferito non rispondere alle domande di Al Jazeera e molti siti serbi, peraltro, hanno messo in dubbio l’autenticità di quel fotogramma.
Rimane il fatto che è davvero difficile dire cosa passi per la testa di Djokovic, quali siano i suoi convincimenti politici, quali le sue posizioni. Difficile davvero, specie per uno come lui che le bombe le ha viste realmente e gli hanno fatto da colonna sonora dell’infanzia. Djokovic è un uomo che, come tutti, affronta le sue mille contraddizioni: da una parte ci sono la sua visione dello sport come elemento unificante, le dichiarazioni pubbliche di simpatia alla squadra croata ai Mondiali di calcio, persino l’aver scelto – tra sterili polemiche – un allenatore croato, Goran Ivanisevic. Dall’altra, di contro, ci sono la figura ingombrante del padre che ha definito il figlio un nazionalista “che viene dalla Serbia, mandato da Dio” e gli “scivoloni” che hanno costellato la carriera del campione.
Il più recente, non più tardi di un anno fa, quando dopo la vittoria agli Australian Open di Sydney, fu sorpreso a cantare pubblicamente una nota canzone di rivendicazione del Kosovo come parte integrante della storia serba e quindi del suo territorio. Opinione peraltro già espressa in passato quando, alla vigilia della proclamazione dell’indipendenza del Kosovo, Djokovic dichiarò che “Il Kosovo è il cuore del mio paese”. Luci e ombre, dunque, contrasti inestricabili: c’è il Djokovic conciliante e aperto delle conferenze stampa internazionali, quelle del suo mondo professionale, quelle del suo essere personaggio pubblico, patrimonio di tutti. E c’è poi il Djokovic nazionalista e patriottardo, quello delle uscite private in terra di “casa sua”, quello del suo mescolarsi alla sua gente, alle sue origini, vero e presunte. Un camaleontico adattarsi al contesto.
L’irragionevolezza di una pretesa
Capita spesso che si ripongano delle speranze e delle aspettative persino irragionevoli su persone che ci piacciono, che siano fuoriclasse dello sport o artisti che ci emozionano. Come se lo specifico talento di queste persone dovesse necessariamente – direi congruentemente – traslarsi a qualsiasi cerchia, a qualsiasi campo. Travalicare per osmosi in ogni dove e in ogni direzione. Come se il loro essere i migliori nel proprio contesto professionale potesse, per grazia ricevuta, metterli al riparo da ogni errore, dalla possibilità (e dal diritto) di essere – fuori di lì – fallibili, fragili, ordinari. Uomini e donne come gli altri, persino dei perfetti idioti. Pretendiamo degli eroi senza ombra e senza peccato, individui sempre perfettamente in equilibrio sul filo sottile del politically correct, sempre perfettamente a proprio agio.
Djokovic è bravissimo con una racchetta in mano, nessuno ha vinto tanto quanto lui negli ultimi anni. Ma fuori dal campo da gioco sbaglia, come tutti e più di molti. Si sbaglia, e di grosso e irreparabilmente e imperdonabilmente, su Srebrenica.
Imperdonabilmente perché Srebrenica non è un posto come gli altri e non evoca fatti come gli altri. Srebrenica è stata Srebrenica: la follia, il baratro, la violenza inaudita. Srebrenica è Srebrenica: la ferita che non si rimargina, l’inconciliabilità che non si appiana, il ponte che non si ricostruisce. E su Srebrenica non ci si può sbagliare: fu genocidio e lo fu al di là di ogni ragionevole dubbio.
Foto: Ok Tennis