Il nuovo governo appena insediatosi in Albania dopo mesi di estenuanti trattative – il voto risale al 25 aprile scorso – presenta almeno due elementi di novità. Tra di essi, ovviamente, non vi è certo il nome del premier: Edi Rama, leader del Partito Socialista (PS) uscito trionfante dalla tornata elettorale, è infatti al suo terzo mandato consecutivo e, oggi più che mai, sembra tenere ben salde le redini del paese nonostante le critiche, gli scandali e le proteste di piazza. Nulla di particolarmente nuovo nemmeno nei contenuti del suo lungo discorso di insediamento, incentrato sulla rivendicazione della legittimità della propria vittoria e sulla necessità di accelerare nella lotta contro la corruzione e le pratiche clientelari, in un paese dove il voto di scambio è prassi assai diffusa.
Un’accusa, quella di essersi avvantaggiato dell’impareggiabile apparato del suo partito in modo poco trasparente e di essere dedito a pratiche corruttive, che è stata il fil rouge degli anni passati. Un’insinuazione, tra l’altro, che aveva indotto il principale partito dell’opposizione di centro-destra, il Partito Democratico (PD), e il suo leader, Lulzim Basha, a prendere la clamorosa decisione di rinunciare ai propri mandati e di restare fuori dalle istituzioni parlamentari (oltre che di non partecipare alle elezioni amministrative del giugno del 2019).
Il ritorno del Partito Democratico
Ed è proprio questo il primo elemento di novità: trenta mesi dopo l’”Aventino”, il Partito Democratico siederà regolarmente in parlamento per occupare i propri scranni – 59 in tutto – al fianco dell’altro partito d’opposizione, il Movimento per l’Integrazione di Monika Kryemadhi, moglie dell’attuale presidente della Repubblica, Ilir Meta.
Se, vista da fuori, l’autoesclusione poteva apparire paradossale, se non addirittura autolesionistica, la decisione di Basha di ripresentarsi nelle aule parlamentari è, per la litigiosissima vita politica del paese, un segnale di grande importanza: un segnale che, finalmente, sembra far uscire l’Albania da quel clima di delegittimazione reciproca che l’ha caratterizzata negli anni della sua storia recente, dalla fine dell’era comunista di Enver Hoxha ad oggi.
Ma non è tutto: nei giorni antecedenti l’insediamento formale del nuovo parlamento, Basha ha annunciato di aver deciso di vietare a Sali Berisha, ex presidente della Repubblica e padre fondatore del partito nel dicembre del 1990, di aderire al proprio gruppo parlamentare. Una decisione clamorosa non solo per la storia di Berisha ma, anche, perché lo stesso Basha rappresenta, di fatto, una sua emanazione e per anni è stato considerato un suo delfino. Una risoluzione figlia delle pressioni esercitate dal Dipartimento di Stato americano che ha inserito Berisha in una lista di politici e funzionari albanesi accusati di corruzione cui è vietato l’ingresso negli Stati Uniti.
E poco importa, a questo punto, che Berisha si sia guardato bene dal rispettarla – avvalendosi del fatto che lo statuto del partito non prevede una tale possibilità – e si sia regolarmente presentato alla prima seduta dell’assemblea. Il dado è tratto, il segnale, dentro e fuori al movimento, è dato, forte e inequivocabile: siamo forse davvero – e finalmente – alla vigilia del rinnovamento del partito, così tante volte evocato quanto disatteso. Un rinnovamento quantomai necessario alla luce della recente batosta elettorale le cui radici risiedono, almeno in parte, nella percezione del partito come espressione di una classe politica vecchia e corrotta, incapace di formulare un progetto veramente alternativo e di lungo respiro.
Non sarà una battaglia semplice per Basha, perlomeno a giudicare dai sondaggi condotti all’indomani del suo intendimento che hanno rivelato che 2 sostenitori del PD su 3 sono contrari all’estromissione dell’anziano leader. Un dato che dimostra, semmai ce ne fosse bisogno, che il lavoro da fare è tanto e che deve inevitabilmente coinvolgere la sfera culturale del proprio bacino di riferimento, per limare via quella ruggine che la politica dell’immobilismo ha accumulato su un progetto vecchio di trent’anni.
Tante donne
Ma ciò che pone l’Albania all’avanguardia non solo in Europa ma anche nel mondo è l’elevatissimo numero di donne cui è stata affidato l’incarico di ministro, e siamo così alla seconda novità. Ben dodici su un totale di sedici, alcune in posti chiave, come il dicastero degli esteri (Olta Xhacka) e quelli delle finanze (Delinda Ibrahimi), della sanità (Ogerta Manastirliu) e delle infrastrutture (Belinda Bolluku), passando per quelli che ruotano intorno alla cultura – anche questo un bel segnale di discontinuità – come il ministero della cultura (Evlia Margariti) e della pubblica istruzione (Evis Kushi).
Una scelta, quella di Rama, che guarda sia in casa sia in Europa. E’ evidente l’intento di Rama di dimostrare che l’Albania ha tutta l’intenzione di allinearsi a uno dei temi cardini della politica europea – più spesso a parole che nei fatti, ad onor del vero – ovvero quello della parità di genere e delle pari opportunità. Un paese, in altri termini, che vuole scrollarsi di dosso la fama di società conservatrice e patriarcale in cui il ruolo delle donne è marginalizzato e relegato al contesto strettamente familiare. Fattore tanto più cruciale in considerazione del fatto che l’Albania si sta preparando ad affrontare i negoziati per l’adesione all’Unione europea, dopo il via libera del Consiglio del marzo dell’anno scorso.
Il Rama 3, dunque, nasce secondo buoni auspici: e a creare un clima di cauto ottimismo per il futuro della vita politica del paese ha contribuito, finalmente, anche l’opposizione di governo. Se sia veramente finita la stagione delle contrapposizioni, delle manifestazioni e delle contro-manifestazioni (spesso violente), delle occupazioni e degli assalti ai palazzi del potere è, però, davvero troppo presto per dirlo.
Foto: jorono