L’evoluzione di una vera e propria narrativa romanzesca in Albania è da considerarsi tutto sommato breve, specie se comparata al percorso compiuto da altre letterature nazionali. A cavallo tra la fine del Diciannovesimo secolo e l’inizio del Ventesimo però, due opere avevano cercato di indicare una strada diversa, connettendosi a correnti letterarie occidentali e provando a inserirsi nel dibattito internazionale. Furono purtroppo molto presto ignorate dalla comunità culturale del paese, per motivazioni soprattutto ideologiche che inaridirono sul nascere la spinta rivoluzionaria che il movimento della Rilindja aveva portato con sé nei suoi intenti di rinnovamento.
Il romanzo: un genere che in Albania si sviluppa con ritardo
La letteratura albanese, nei suoi esordi, è contraddistinta da una lunga fase, in cui la trasposizione del patrimonio folklorico in poemi in versi e in raccolte di racconti rappresentò l’unica soluzione espressiva. Si tratta di narrazioni che provenivano dall’oralità tramandata, spesso accompagnata dal çifteli, il tradizionale strumento a corda che costituiva un supporto melodico ed evocativo per chi raccontava storie.
Troviamo le prime attestazioni di romanzo – inteso nella sua accezione ottocentesca, e dunque moderna e borghese – tra la fine del Diciannovesimo secolo e gli inizi del Novecento. Se questa forma, all’interno della cultura occidentale, era risultata la più adatta per rappresentare non soltanto la realtà, ma anche e soprattutto la natura delle contrapposizioni sociali che si stavano verificando, in Albania si dovranno attendere le opere di Agolli e di Kadare per far sì che una compiuta storia del genere, nella seconda parte del Novecento, possa avere a tutti gli effetti inizio.
Del resto, il problema di uno standard linguistico di riferimento trovò una sua prima definizione solo dal 1916 in poi, quando fu scelto il dialetto ghego di Elbasan come lingua nazionale, scalzato poi dal tosco attorno al 1950. Lingua giovane – tutt’ora in formazione in seguito all’ingente introduzione di forestierismi e di revisioni della norma – e letteratura giovane dunque quelle albanesi, i cui destini furono segnati però per circa cinquanta anni da una intromissione totalizzante, di natura storico-politica.
La svolta omologante del realismo socialista voluto da Enver Hoxha
In seguito ai diktat culturali imposti da Enver Hoxha, infatti, l’adozione sistematica del realismo socialista bloccò sul nascere alcune svolte che avrebbero potuto trasmettere incoraggianti segnali di apertura nei confronti della contemporaneità occidentale. Questi, se recepiti, avrebbero senza dubbio determinato sviluppi differenti in seno al dibattito letterario del tempo.
Il romanzo si concentrò invece, in una dimensione via via più inerte, su temi funzionali alla retorica del Partito del Lavoro quali la celebrazione della collettività rurale e il rinvenimento, attraverso la forma del romanzo storico, di casi in cui figure della resistenza alla dominazione ottomana – Skanderbeg, Alì pascia da Tepeleni – fossero in grado di esaltare il valore albanese e allo stesso tempo riuscissero a mantenere a distanza di sicurezza la narrazione dalla più stretta attualità del Regime. Anche gli esempi di eroica guerriglia opposta alla dominazione nazi-fascista, verificatisi nel secondo conflitto mondiale, risultarono un approdo sicuro per non incorrere in censure e in deportazioni punitive.
Due opere diverse: Bardha e Temalit e Pse?
Lo spettro dei temi ritenuti adatti per una narrazione di ampio respiro, come si vede, era piuttosto ridotto e non prevedeva il ricorso alle soluzioni del romanzesco e della introspezione psicologica dei personaggi, soluzioni che altrove avevano invece innervato interi e fortunati filoni letterari transnazionali.
In quest’ottica, ci sono almeno due opere che costituiscono (dal mio punto di vista) una sorta di seme non germogliato all’interno della letteratura albanese e in particolare all’interno della storia del suo romanzo. Si tratta di Bardha e Temalit, di Pashko Vasa. E di Pse?, di Sterjo Spasse. Con il primo, scritto in francese nel 1890 e pubblicato per la prima volta a Parigi, una splendida storia di amore vendetta e ribellione – dalle tinte dunque melodrammatiche – poteva aprire la strada anche in Albania ad un intreccio in cui la godibilità di lettura determinata dalle vicende si unisse a elementi di critica sociale.
Con il secondo, scritto nel 1935 e successivamente proibito, assistiamo ad un intreccio in cui un protagonista intellettuale, il giovane medico Gjon Zaveri, problematico e incline alla riflessione, sposta nell’ambito di una narrazione dell’io il fulcro della storia, con esiti senza dubbio espressionisti, rivelando dunque una diretta influenza rispetto alla letteratura europea allora contemporanea. Queste due opere potevano trasmettere un imprinting e determinare svolte diverse.
Furono al contrario relegate ai margini del dibattito, senza che la loro lezione avesse il tempo, e il modo, di essere approfondita. Rimangono come due momenti isolati nel corso di circa sessant’anni di produzione narrativa, in cui si assiste al proliferare di storie tutto sommato sovrapponibili.
Oltre alla tensione argomentativa ed epico-tragica del secondo Kadare, dovranno maturare le esperienze degli scrittori italofoni, finalmente liberi di esprimersi e lontani dall’angoscia della dittatura, perché si possa constatare la ripresa della narrazione borghese otto-novecentesca e delle tematiche dell’avventuroso. In questo quadro, soprattutto le opere della scrittrice Anilda Ibrahimi, pubblicate al momento tra il 2008 e il 2018, costituiscono un valido elemento di connessione con una tradizione a lungo censurata.
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