I talebani tornano a Kabul e, mentre la Grecia si affretta a costruire 40 chilometri di muro per cercare di bloccare i profughi, Airbnb, la piattaforma on line di affitti a breve termine, dichiara di essere disposta a offrire alloggio gratuito a 20.000 rifugiati afgani. Spot pubblicitario per una compagnia che ancora paga lo scotto del lockdown, ennesimo tentativo di privatizzare una crisi umanitaria o sincera voglia di beneficenza?
Brian Chesky, amministratore delegato dell’azienda, ha affermato che la mossa è la risposta a “una delle più grandi crisi umanitarie del nostro tempo, perciò la società ha sentito la responsabilità di farsi avanti”; e ha poi aggiunto: “Spero che questo ispiri altri leader aziendali a fare lo stesso. Non c’è tempo da perdere”.
Il colosso non è nuovo a iniziative del genere. All’inizio di quest’anno aveva infatti annunciato un programma di raccolta fondi da 25 milioni di dollari, appositamente pensato per potenziare la rete di sostegno all’offerta di alloggio per rifugiati e richiedenti asilo in tutto il mondo. Sul sito di Airbnb.org, fondazione no profit costola di Airbnb, si può leggere che la nuova iniziativa sarà finanziata “utilizzando fondi che provengono dalla fondazione, da a uno specifico fondo per i rifugiati, nonché da contributi personali dello stesso Chesky”.
La città come una merce
Airbnb non è, però, un’azienda innocua, almeno secondo diversi punti di vista. Sarah Gainsforth in “Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale”, uscito nel 2019 per Derive e Approdi, delinea un quadro interessante sull’azienda, tratteggiando quanto Airbnb abbia contribuito a trasformare radicalmente i centri urbani, piegando il tessuto sociale a esigenze aziendali e trasformando le città in una sorta di riserva indiana per vacanzieri.
“La città-merce è lo spazio urbano inabitabile. È la città dei turisti, dei ricchi, del capitale finanziario, delle piattaforme digitali, è lo spazio dove atterrano i flussi fisici e digitali che trasformando le città e le relazioni. La turistificazione, una nuova forma di gentrificazione favorita dalle piattaforme digitali, sta trasformando le città a ritmi inediti. È saltato l’equilibrio tra le funzioni urbane, con il prevalere di quella commerciale su tutte le altre”, ha dichiarato in un’intervista.
Gli effetti del problema sono evidenti: le case dei centri storici delle città europee sono quasi tutte su Airbnb, gli affitti continuano a salire e i pochi residenti rimasti tendono a non potersi più permettere di vivere nei vecchi quartieri, così se ne vanno. La cosa sta divenendo talmente evidente che in alcune grandi città europee si sta aprendo un dibatto sugli effetti che le restrizioni dovute alla pandemia hanno avuto sulla vivibilità dei centri urbani, in particolare si pone l’accento su quanto la riduzione del turismo di massa abbia contribuito a migliorare la qualità della vita dei residenti, e sono in molti a chiedersi quanto sia giusto lasciare che la gestione de facto dello spazio urbano sia delegata a imprese private.
I cittadini, inoltre, iniziano a rendersi conto che alcune aziende tendono a trascinare in tribunale i consigli comunali che provano a regolamentarle; relativamente alla sopracitata piattaforma è di nuovo Sarah Gainsforth a spiegarne il modus operandi: “La strategia è quella di mobilitare e mandare avanti i suoi host (coloro che affittano case o stanze, ovvero i suoi clienti) come fossero membri di un movimento, per chiedere regole favorevoli all’home-sharing. Di fatto la regia è di Airbnb, che spaccia i suoi interessi economici privati per interessi collettivi”.
Green Washing Sociale
La comunicazione di questo tipo di aziende è fortemente condizionata dalla volontà di veicolare un messaggio costruttivo, in modo che i clienti abbiano una percezione positiva della loro immagine. Quegli stessi clienti però si trovano, sempre più spesso, a realizzare di non potersi più permettere un affitto nei centri storici delle loro città anche a causa dell’home-sharing. Questo tipo di consapevolezza porta i cittadini a comprendere che un certo modo di fare impresa è ostile proprio alla classe di persone di cui si racconta amico; una bella seccatura per un certo tipo di piattaforme on line.
Quando questo tipo di noie succedono ad aziende che hanno in qualche modo a che fare con la sostenibilità ambientale si è trovato il modo di reagire: si dà una bella mano di verde alla facciata e si continua a lavorare come se nulla fosse. Il problema è che nel settore degli affitti è difficile usare l’ecologia come cavallo di troia per ovviare ai propri impicci e, se si vuole dare una rinfrescata al proprio appeal, c’è da pensare a qualcosa di altrettanto efficace del green washing e trovare il modo di applicarlo alle scienze umane.
A tendere la mano alle imprese c’è il marketing sociale, che è il modo perfetto per provare a dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Da una parte, infatti, i destinatari di un progetto ottengono un qualche tipo di beneficio, dall’altra l’azienda riceve un vantaggio in termini di comunicazione e popolarità. Una pratica questa cui la crisi umanitaria afgana pare aprire un ventaglio infinito di possibilità.
Foto: Kabul by wikipedia commons