Ci avevano creduto tutti, alla vigilia del 9 agosto 2020: nonostante i tentativi di Lukashenko di arrivare alle elezioni senza avversari, la casalinga Svetlana Tichanovskaja aveva sorpreso tutti, compreso lui, che aveva dovuto sminuirla pubblicamente nella speranza di svalutarne la credibilità.
E invece non era servito. Quella donna, che all’ultimo momento si era candidata perché nessun uomo aveva potuto farlo – suo marito, Sergej Tichanovskij, blogger in carcere da maggio 2020; Viktor Babariko, banchiere arrestato solo un mese dopo; Valerij Tsepkalo, imprenditore fuggito in Polonia prima di essere a sua volta arrestato – aveva raccolto decine di migliaia di persone già nei raduni pre-elettorali.
Una rivoluzione in atto
Mentre agli occhi dei più quei comizi sembravano la normalità, per gli osservatori avevano segnato già un punto di non ritorno. Mai, nella storia della Bielorussia post sovietica, un candidato aveva ottenuto tali consensi, soprattutto al di fuori di Minsk. In certe piccole cittadine del sud, nella regione di Gomel’ martoriata dalle radiazioni, persone di ogni età ed estrazione si accalcavano nelle foreste adibite a palcoscenico: du jamais vu, direbbero i francesi. Qualcosa mai visto prima. Si era quindi capito già allora che la casalinga, insieme alle altre due donne al suo fianco – Veronika Tsepkalo, la moglie di Valerij, e Maria Kolesnikova, portavoce di Viktor Babariko, avrebbe fatto la storia.
Elezioni senza democrazia
Già dall’alba del 9 agosto i bielorussi si erano messi in fila ordinatamente per poter votare: anche questo, mai visto nella storia della Repubblica di Belarus’. L’opposizione a Lukashenko aveva messo in atto un sistema per tenere la conta dei voti reali, quelli per lui e quelli per gli altri candidati, attraverso una piattaforma su internet e fuori dai seggi, dove volontari – in Bielorussia come nelle ambasciate all’estero – registravano le preferenze degli elettori, passaporti alla mano.
Per dirsi democratiche, le elezioni non devono tenere conto soltanto dei voti, ma anche delle condizioni in cui queste si svolgono. In primis, deve esserci una vera alternanza politica: da una parte la Costituzione dovrebbe sancire un limite all’elezione di una massima carica dello Stato (in Bielorussia, la Costituzione è stata cambiata nel 2005 con un referendum molto discusso, e Lukashenko può candidarsi all’infinito), dall’altra si dovrebbe garantire uguale accesso a chiunque voglia candidarsi. Punto che, questa volta ancora più di altre, non viene rispettato proprio a causa dell’impossibilità dei candidati avversari principali a partecipare.
Ma deve esserci anche quella libertà di accesso alle informazioni che invece manca in uno stato in cui i media indipendenti vengono ostacolati con ogni mezzo e in cui la tv rispecchia un solo punto di vista, quello del presidente in carica dal 1994. In quest’ultimo anno, siti, giornali e tv di espressione non filo-governativa hanno subito repressioni e violenze di ogni genere, vedendosi obbligati nella maggioranza dei casi a chiudere.
Un anno di proteste e di sangue
Il resto, è storia. Mentre Tsepkalo lasciava il paese per ricongiungersi al marito e ai figli, Tichanovskaja si vedeva costretta a fare lo stesso e chiedere asilo in Lituania, dove tuttora si trova, nonostante le sia stato attribuito lo status di Presidente eletto grazie alla conta dei voti, che ha dimostrato come i seggi siano stati manipolati. Pochi giorni dopo, anche Maria Kolesnikova è stata invitata a lasciare il paese, e di fronte al rifiuto di farlo è stata arrestata. La portavoce di Babariko si trova tuttora in carcere, proprio come l’ex candidato.
Le proteste, represse con la violenza grazie al sistema di supporto militare su cui Lukashenko può contare, sono andate avanti per settimane: niente hanno potuto i morti, gli arresti, le torture e le violenze. E nonostante gli ammonimenti delle forze democratiche internazionali e lo svuotamento delle piazze, la repressione non si è fermata: a oggi sono decine di migliaia le persone arrestate, oltre seicento i prigionieri politici, numerosi i morti – l’ultimo, lo ricordiamo, è Vitalij Shishov, attivista della ONG Casa Bielorussia, con sede a Kiev, trovato impiccato e con segni di percosse in un parco della capitale ucraina – migliaia le richieste di asilo, milioni i bielorussi che rischiano ogni giorno uscendo di casa mentre vivono la loro vita.
Il punto a un anno dalle elezioni
La domanda più frequente che si pone chi segue le vicende bielorusse è: quando finirà tutto questo? Un anno fa noi osservatori avremmo detto con una certa sicurezza che le elezioni dell’agosto 2020 avrebbero finalmente messo fine a un quarto di secolo di dittatura, ma non è stato così. Ciononostante, l’asticella si sposta sempre più in alto e i sostenitori di Lukashenko sono sempre più sparuti. Mentre l’Occidente impone sanzioni, la Russia resta tiepida, in attesa di capire cosa verrà messo sul tavolo.
L’unico modo per far crollare il regime è isolarlo completamente, in particolare dal punto di vista economico. Quando Lukashenko non avrà più soldi per mantenere in piedi il sistema di terrore che gli garantisce sicurezza, sarà più semplice destituirlo. Per far sì che accada, le sanzioni sono un tassello fondamentale, così come un eventuale accordo tra Russia e Stati Uniti. La recente visita di Tichanovskaja negli Usa potrebbe aver segnato un altro passo verso il cambiamento.
Nel frattempo, i bielorussi non mollano: presto qualcosa accadrà, e a prescindere da quale sarà effettivamente la soluzione, il sangue versato non sarà stato invano.
Per saperne di più: Cosa succede in Bielorussia, tutti gli articoli. E in ordine
Immagine: Jana Shnipelson / Unsplash