di Matteo Zola
L’Europa sarà distrutta
A Davos si sta tenendo l’annuale forum economico mondiale, gli economisti lì radunati si stanno guadagnando le prime pagine dei giornali con dichiarazioni a dir poco allarmistiche. Secondo l’economista Nouriel Roubini, della New York University, la Grecia sarà fuori dall’euro nel giro di un anno, seguita dal Portogallo, e l’intera area monetaria sarà distrutta nei prossimi 3-5 anni perché «l’euro-zona è come un disastro ferroviario al rallentatore». All’opinione di Roubini fanno eco quelle di altre economisti, non meno gravi. Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale (Fmi), ha usato la platea di Davos per chiedere soldi. Lo ha fatto agitando la borsetta, già, perché i soldi del Fmi sono stanziati dai Paesi membri e l’attuale dotazione, di 385 miliardi di dollari (rileggete questa cifra), non è sufficiente ad affrontare la crisi dell’area euro. Ne servirebbero altri 500 miliardi, sempre di dollari.
Il Fmi, al soldo di chi mette i soldi
Il Fmi ha il compito, almeno dal 1971, di concedere prestiti agli Stati membri in caso di squilibrio della bilancia dei pagamenti e si occupa anche della ristrutturazione del debito estero. In cambio il Fmi impone dei “piani di aggiustamento strutturale” come condizioni per ottenere prestiti o condizioni più favorevoli per il rimborso del debito che costituiscono l’aspetto più controverso della sua attività. E’ semplice: “se vuoi i miei soldi fai come ti dico io”. Il fatto è che come dice lui non sempre funziona. Non scomodiamo le disastrate economie africane, pensiamo alla nostra Europa orientale. Secondo il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz il Fmi ha lì operato con alcuni “difetti”: i prestiti concessi infatti sono serviti a rimborsare i creditori occidentali, anziché aiutare le economie nella transizione dal comunismo all’economia di mercato. In Europa orientale, poi, il Fmi ha appoggiato coloro che si pronunciavano per una privatizzazione rapida, che in assenza delle istituzioni necessarie ha danneggiato i cittadini e rimpinguato le tasche di politici corrotti e uomini d’affari disonesti. Stiglitz osserva che i risultati migliori in materia di transizione sono stati conseguiti proprio da chi, come la Polonia, non ha seguito le indicazioni del Fondo.
Stiglitz osserva anche come il Fmi prenda decisioni in modo poco trasparente, facendo gli interessi dei Paesi che ne sono i principali finanziatori. Non è un’accusa campata in aria: il voto dei Paesi membri non vale uno per ciascuno ma ha un valore percentuale che dipende da quanti soldi si versano. Il voto degli Stati Uniti, ad esempio, vale sedici. Il Giappone vale sei, la Germania cinque, la Francia quattro, la Cina e l’Italia tre.
Il Fmi e i pericoli per la democrazia
Il Fmi infine, secondo Stiglitz, impone le sue decisioni ai governi democraticamente eletti che si trovano così a perdere la sovranità sulle loro politiche economiche. Va però detto che quei governi hanno prima accettato l’aiuto economico del Fondo e che la sovranità nazionale può non essere un dogma (si pensi all’Unione Europea che è, anch’essa, una riduzione volontaria di sovranità nazionale). Si tratta comunque di un problema grave in quanto l’Fmi è l’unico offerente e rifiutarne l’aiuto può voler dire andare incontro alla bancarotta. Accettarlo, invece, significa applicare misure di austerità che possono colpire gravemente lo stato sociale (pensioni, sanità, istruzione) senza escludere che si può comunque andare in bancarotta (il Senegal e l’Argentina sono lì a dimostrarlo). I mali del Fmi li riassume bene Michel Chossudovsky, importante economista canadese, che spiega come le politiche economiche del Fmi sono obbligatorie, e scavalcano la consultazione dei cittadini: la democrazia ne esce perciò impoverita. I cittadini, esasperati dalla disoccupazione e dall’inflazione, protestano invano contro le misure di austerità e contro i governi che le hanno introdotte (accettando l’aiuto del Fondo). Il fatto è che le misure imposte dal Fondo non sono negoziabili. Le proteste, fosì frustrate, si fanno sempre più violente. Diventa allora necessario rafforzare gli organi di sicurezza e reprimere il dissenso. Così la democrazia viene messa ulteriormente in serio pericolo.
Grecia, Ungheria, Romania, commissariati o collassati
E’ quanto sta accadendo, seppur in diversa misura, in Grecia, Ungheria e Romania. In questi Paesi le proteste di piazza si sono fatte sempre più forti e la polizia è intervenuta reprimendo duramente le manifestazioni contro i governi e il Fmi. Proteste di cui poco o niente si parla (e allora ben vengano i seni al vento delle Femen se servono a “fare notizia”) ma che non sembrano destinate a placarsi. L’Ungheria, in verità, è un caso a parte poiché il tanto vituperato premier Viktor Orban (che personalmente non amo, dirò altrove il perché) ha rifiutato l’aiuto del Fondo cercando di proteggere l’economia magiara, tassando le banche, rinnovando la Banca centrale. Ma non è servito e in queste settimane sta rinegoziando l’aiuto del Fmi perché di fronte ha il collasso economico.
In Romania da due settimane infiamma una protesta di piazza (di cui nessuno parla) le cui cause profonde sono da ricercarsi nella peculiare transizione romena dalla caduta di Ceausescu ad oggi, ma che ha strettamente a che fare con l’attuale situazione finanziaria europea e con le ricette con cui la si affronta. Il Paese però non sembra avere davanti a sé alternative all’attuale corso politico, unanimemente concorde nel mettere (qualcuno dice “svendere“) il Paese nelle mani del Fmi.
C’è poi chi come la Grecia vive ore drammatiche. La Germania avrebbe infatti proposto di commissariarla. Berlino vorrebbe che fosse l’Unione Europea e non Atene a controllare il bilancio greco. Cosa che ha ovviamente mandato su tutte le furie Papademos, il premier greco accusato dai detrattori di essere “amico delle banche”. Una Grecia che finora ha ottenuto, in cambio delle gravi misure imposte dal Fmi, di ridurre il debito estero al 120% del Pil entro il 2020 (attualmente è al 160%). Insomma, ha ottenuto di passare dieci anni di recessione mantenendo un debito comunque elevatissimo. Una ricetta efficace?
Domande alle Cassandre di Davos
Le domande che, senza essere economisti, crediamo si debbano porre a Davos sono proprio queste: le misure del Fmi serviranno a risanare le economie dell’area euro? Il Fmi è da riformare? Quali nuove istituzioni economiche possono rinnovare quelle nate nel 1944 dopo gli accordi di Bretton Woods? E’ possibile coniugare stabilità economica a equità sociale e, più provocatoriamente, è possibile dissociare il progresso umano dallo sviluppo? Domande troppo grandi per noi ma forse anche per le Cassandre di Davos.
Articolo interessante, ma forse la questione dell’fmi è un po’ secondaria no? Può anche darsi che sia un’organizzazione con problemi di trasparenza e sottoposta a pressioni e interferenze di qualche ‘potere forte’. Può anche essere che i suoi interventi non siano stati così efficaci o persino controproducenti (io non lo so, e non ho elementi per valutare). Il problema delle crisi attuali però non è certo il fmi.
In Europa i guai sono stati creati da poteri pubblici e da politici irresponsabili, e così altrove, dove molto spesso il poteri pubblici sono stati ‘privatizzati’, nel senso che, in assenza di istituzioni forti capaci di limitarne l’uso arbitrario, sono diventati strumenti in mano a gruppi o singoli (simili alle mafie) che hanno affamato la gente o impedito lo sviluppo delle attività economiche pur di soddisfare i loro fini personali.
Più in generale, le crisi economiche attuali sono quasi tutte (per non dire tutte) derivate da accumulazioni di debiti utilizzati poi per finanziare spese insensate (magari finalizzate a un’illusione di ‘equità sociale’, con connessa raccolta di facili consensi). Quando però i debiti diventano insostenibili le bolle scoppiano, e tocca la cinghia anche in modo radicale, ma non c’è altra cura, se si vogliono creare le premesse di una ripresa successiva.
Quando c’è un tossico terminale, che ha vissuto per anni un’illusione di benessere grazie alla droga (che in realtà stava distruggendo il suo organismo), appena gliela si toglie avrà le convulsioni, gli sembrerà di morire. L’austerità imposta agli stati che hanno accumulato troppi debiti e disastrato l’economia è un po’ la stessa cosa, (al di là da chi la impone, il fmi o altri). Inevitabilmente appena si chiudono i rubinetti ci sono i malesseri sociali (la disoccupazione, la povertà ecc.), ma dare la colpa di questi all’austerità è come attribuire il malessere di un drogato che si disintossica al fatto che gli si è tolta la droga. Certo si può toglierla gradualmente, ma alla fine lì si deve arrivare.
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
Sul Fmi più che problemi di trasparenza si tratta proprio, com’è scritto nell’articolo, di un’istituzione in cui il voto è legato alle quote versate. Del resto è quasi…normale… che chi presta i soldi voglia assicurarsi che gli ritornino, e imponga delle politiche che crede possano migliorare la situazione.
Il punto è che i paesi dovrebbero cercare soluzioni diverse dall’intervento del fondo monetario, proprio perché la storia ha insegnato che i suoi pacchetti preconfezionati hanno avuto in larga parte effetti che dir negativi è un eufemismo.
Al tempo stesso, mi sembra che nel tuo commento ci sia una contraddizione. Parli di poteri pubblici e politici irresponsabili, e poi critichi le illusioni da equità sociale e ritieni necessaria l’austerità imposta ai paesi.
Le mie critiche sono sostanzialmente due:
-visto che le politiche di austerità creano un corto circuito (ed è riconosciuto da qualsiasi economista) è necessario sostituirle con non solo e non tanto con le sbandierate politiche di crescita, ma soprattutto con politiche sociali. Questo perché – se vogliamo vederla in un’ottica capitalistica – l’ampliamento del divario tra ricchi e poveri, avvenuto negli ultimi vent’anni, e il peggioramento delle condizioni di vita della classe media non favoriscono, verso i quali si dirigerebbero volentieri e senza bisogno di molti incentivi sia gli indigenti che una classe media con più margini economici. Per la continuazione del capitalismo come l’abbiamo conosciuto, è necessario che la più ampia fascia possibile della popolazione sia messa nelle condizioni di consumare.
– se sono poteri pubblici e politici irresponsabili colpevoli dell’attuale crisi del debito, perchè a farne le spese dovrebbero essere i cittadini dello stato, tanto più quando non hanno beneficiato di quel debito? Una ristrutturazione del debito (non necessariamente una sua cancellazione) sarebbe inoltre sensata nell’ottica di ridurre il potere delle istituzioni finanziarie. Non si tratta solo del debito (che già di per sé è un grosso problema, e andrebbe certamente utilizzato in modo diverso), ma della speculazione finanziaria, degli interessi pagati sul debito che variano con la credibilità dello Stato, decisa da agenzia ben poco imparziali e autonome.
(Le stesse agenzie che – tra l’altro – hanno addotto tra le motivazioni di declassamento del debito italiano proprio il fatto che la sola austerità non funziona)
– infine, il modello capitalistico, si sa, è un modello che ciclicamente entra in crisi, tra l’altro per la saturazione dei propri mercati. In passato le vere soluzioni sono state la guerra, o il raggiungimento di aree ancora vergini, dove quindi il mercato non era ancora saturo. Oggi ovviamente ciò non è possibile. È quindi il modello stesso del nostro sistema economico che andrebbe ripensato, a partire dalle misure più soft che erano invocate già allo scoppio della crisi (maggiore regolarizzazione dei mercati finanziari, non è avvenuta, e siamo daccapo), fino – per chi ha smesso di credere nel capitalismo – a misure più drastiche. Il salario sociale (che poco ha a che vedere con la proposta della Fornero) è un modello attuabile.
La decrescita – per quanto appaia più utopica che realista – suggerisce (tra alcune follie) delle misure profondamente sensate, come lavorare meno per lavorare tutti, e avere tempo da dedicare all’autoproduzione. Qualcuno dice, alla cura degli altri, peso oggi generalmente scaricato sulle spalle delle donne.
In alcuni paesi ci si sta provando.
Le costituzioni di Ecuador e Bolivia considerano il “bem vivir” (ispirato alla cultura indigena) uno degli assi portanti del modello di vita da sviluppare.
Pensare a delle alternative, ormai, è una necessità, non un mero esercizio intellettuale.
Grazie Dani, commento estremamente interessante per chi come me passa tutto il tempo nell’academic mainstream 🙂