Il 15 giugno la nazionale magiara ha fatto il suo esordio nella rassegna continentale ospitando a Budapest il Portogallo. Al netto della buona prestazione della formazione ungherese, superata solo nei minuti finali dai campioni in carica di Lisbona, è stata la cornice della Puskás Aréna a sorprendere i telespettatori: oltre 65.000 spettatori hanno affollato l’impianto di Budapest, in una cartolina che sembra allontanare definitivamente le restrizioni dovute all’emergenza sanitaria. Quella magiara è una vera e propria mossa politica: unico stadio della rassegna a essere pieno al 100%, il “Puskás”, è prima di tutto un simbolo della riuscita della campagna vaccinale ungherese, e un attacco indiretto a quella di Bruxelles.
Tutti allo stadio
Mentre Budapest iniziava la lenta uscita dalla fase più acuta della terza ondata – che aveva colpito duramente il paese – la Federazione nazionale di calcio ungherese annunciò – già il 7 aprile, che per i campionati europei la Puskás Aréna avrebbe garantito un’affluenza del 100%. Una mossa che aveva un chiaro sapore politico, dato che Budapest, a differenza della maggior parte delle altre capitali, si era affidata, oltre che ai vaccini importati dall’Unione, anche a quelli russi (Sputnik V) e cinesi (Sinopharm). Il messaggio era piuttosto chiaro: Budapest diventava un modello virtuoso, che aveva giocato d’anticipo e poteva permettersi importanti riaperture, mentre gli altri paesi, a causa del tergiversare di Bruxelles, dovevano accontentarsi di riaperture minori o addirittura rinunciare a ospitare la competizione.
La scommessa, a oggi, è vinta dai magiari: i telespettatori europei sono rimasti profondamente colpiti dal colpo d’occhio dello stadio, primo evento sportivo che ha registrato il tutto esaurito in Europa dall’emergere della pandemia.
Rischi
Mentre a Budapest si festeggia, c’è chi si preoccupa. Un maxi-assembramento da oltre 65.000 persone (senza contare tutti i ritrovi minori), con regole anti-contagio molto rilassate – già da qualche settimana è stato abolito l’obbligo di mascherina all’aperto – e condito da una sfilata di migliaia di persone per un paio d’ore per le vie della città organizzato dagli ultras della nazionale “Carpathian Brigade ‘09” potrebbe avere conseguenze di rilievo nella diffusione di varianti più aggressive del Covid.
Sebbene la situazione sanitaria nel paese sia attualmente sotto controllo, l’allentamento delle restrizioni, unito all’afflusso di tifosi stranieri può causare nuovi focolai. Preoccupa proprio la situazione portoghese, dove nelle ultime ore si è registrato un netto incremento della variante delta: chiaro, dunque, che alcuni dei supporter a seguito della nazionale lusitana potrebbero portare il nuovo ceppo, che troverebbe la situazione ideale per radicarsi anche in Europa centrale. Anche per questo il Ministero della Sanità slovacco, ha espresso la sua preoccupazione, e starebbe pensando di sottoporre i tifosi slovacchi presenti alla partita – qualche centinaio – a test molecolari.
Gli ungheresi non si inchinano
Nel frattempo il pubblico ungherese è finito al centro della polemica anche per altri motivi: l’UEFA ha ricevuto una segnalazione dal FARE (calcio contro il razzismo in Europa), perché i tifosi magiari hanno esposto cartelloni contro la comunità LGBTQI+, proprio lo stesso giorno in cui si votava a Budapest il pacchetto di leggi sulla “pedofilia”, trasformatasi dal 10 giugno in una misura omofoba, che mira a colpire tutte quelle opere che possono “reclamizzare” l’omosessualità fra i giovani, o promuovere cambiamenti di genere.
Che i tifosi ungheresi abbiano poco a cuore i diritti civili, del resto, era cosa nota: l’8 giugno alla “Puskás”, in un’amichevole di avvicinamento alla rassegna continentale, i supporter magiari hanno fischiato la nazionale dell’Irlanda intenta a effettuare, prima dell’inizio del match, il “take a knee”. La stessa federazione di Budapest, aveva del resto già reso nota la sua posizione, evidenziando che la squadra ungherese non si sarebbe inginocchiata.
«L’ungherese non è mai abituato a inginocchiarsi, l’ungherese non si inginocchia davanti a nessuno, anche se mendicante, anche se colpevole, anche se viene ucciso, non si inginocchia», questa la frase di Mór Jókai, tratta da “Un nababbo ungherese” (Egy magyar nábob, 1854) con cui il gruppo organizzato dei supporter della nazionale ha celebrato la giornata della poesia magiara (11 aprile), e che è stata recentemente riutilizzata proprio per giustificare l’atteggiamento dei tifosi contro l’Irlanda.
Del resto, anche il primo ministro del paese, Viktor Orbán, è intervenuto sulla questione, giustificando la scelta della Federazione in modo diverso: non è che gli ungheresi non si inginocchino davanti a nessuno, secondo il premier, quanto che lo fanno solo in tre occasioni. Ovvero, quando si trovano davanti a Dio, davanti alla Patria, e davanti alla futura moglie, per chiederne la mano.
Chiaro dunque che la scelta di non effettuare il “take a knee”, per quanto giustificato con una supposta “apoliticità dello sport” nasconda ben altro. Prima di tutto l’idea della difesa della cultura nazionale ungherese da elementi bollati come “esogeni”, che non risparmia di certo lo sport.
Immagine: Puskás arena (15 novembre 2019), wikimedia