L’ascensore di Prijedor
di Darko Cvijetić
traduzione di Elisa Copetti
pp. 120
Bottega Errante Edizioni, 2021
Euro 15
Negli anni Settanta Prijedor è una laboriosa cittadina bosniaca ai piedi del monte Kozara, vicino al fiume Sana, dove sorgono la cartiera Celuloza, la fabbrica tessile Borac, la ditta Bosnamontaža e il complesso minerario Ljubija. In periferia, non lontano dalla zona industriale, si staglia un imponente edificio di mattoni scarlatti, il Condominio rosso 101 (Crveni soliter 101). Inaugurato nel 1975, è formato da due costruzioni di dodici piani comunicanti tra loro più una galleria, per un totale di 104 appartamenti.
E il palazzo era pieno di operai e di insegnanti e tutti mescolati, per ogni piano otto appartamenti, così due famiglie serbe, due musulmane/bosgnacche, due jugoslave, due croate, il tutto frullato e condito con almeno due famiglie rom.
Una “scatoletta di mattoncini rossi” come ce ne sono tante, ideata allo scopo di mettere e tenere in contatto il mosaico multiculturale della federazione, soprattutto nel territorio dell’attuale Bosnia ed Erzegovina. Una torre di Babele balcanica rovesciata dalla furia nazionalista, una bomba a orologeria innescata nell’aprile 1992, che trasforma il fabbricato in una “cassa da morto appena verniciata e messa dritta”. Alcuni inquilini vengono assassinati e gettati nelle fosse comuni, altri deportati nei campi di concentramento di Omarska, Keraterm e Trnopolje; c’è chi emigra all’estero, chi è costretto ad arruolarsi, chi impazzisce e si uccide, chi rimane invalido oppure senza famiglia, chi sopravvive e tenta di aiutare il prossimo.
Nato nel 1968 nei pressi di Prijedor, Darko Cvijetić vive nel Condominio rosso sin da quando è stato costruito. Originario di una famiglia operaia, ha radici serbe, croate ed ebraiche, e si definisce uno “scrittore post-jugoslavo” che “vive in Jugoslavia”. Poeta, drammaturgo, attore e regista teatrale pluripremiato e tradotto, nel 2018 scrive di getto gli episodi che compongono il romanzo L’ascensore di Prijedor (Schindlerov lift), dopo averli tenuti per “23 anni in gola”. Frutto del bisogno di fare i conti con gli eventi di cui è stato testimone, Cvijetić manda il risultato ad alcuni colleghi – tra cui Miljenko Jergović – per sapere se oltre al valore catartico ne abbia anche uno letterario. Il responso è unanime e commosso, e il libro esce l’anno stesso.
Se il contenuto ha subito scatenato polemiche nella città della Republika Srpska, il rimando alla pellicola di Steven Spielberg del titolo originale è stato accolto molto male dall’azienda svizzera Schindler. Gli avvocati della ditta elvetica, che non ha prodotto l’ascensore in questione e non vuole essere associata né all’Olocausto né tantomeno alle guerre jugoslave, hanno minacciato l’autore di procedere per vie legali se non fornirà “spiegazioni valide” a riguardo. Nel frattempo, l’adattamento teatrale del volume ha debuttato al Kamerni teatar 55 di Sarajevo lo scorso marzo.
Nessuno vide, nessuno comprese, nessuno poté sentire che il teatro si stava riversando nella realtà.
L’opera è drammatica sia nella sua ricostruzione minuziosa della realtà dei fatti che nella sua struttura agile, secca e tagliente, scarna ma estremamente lirica, prossima a una pièce. Ciascuno dei capitoli occupa poche facciate, in una sequenza di brevi monologhi il cui ritmo serrato non lascia scampo al lettore, sballottato senza sosta tra passato e presente, sommerso da una fiumana di nomi e soprannomi. Le pagine iniziali e finali ospitano concisi paragrafi in versi, frammenti di passato e suggestioni artistiche che riecheggiano più volte attraverso tutto lo scritto. Alle tragedie dei condòmini si affiancano quelle dei protagonisti di classici della letteratura come Il Gabbiano e La corsia n. 6 di Čechov, l’Amleto di Shakespeare e l’Antigone di Sofocle.
A poca distanza dal Condominio rosso ne sorge un altro più piccolo, blu. Rosso, blu e bianco sono le tonalità che dominano L’ascensore di Prijedor, le stesse della bandiera jugoslava; tutte e tre hanno connotazioni quasi sempre negative. Il rosso è il colore del sangue, dei vermi e dei mattoni, blu sono i lacci delle scarpe con cui s’impicca Drago, il suo collo e l’acqua nei polmoni degli operai “affondati nella nazione”, bianca è la bara di Sonja e la vernice con cui Obrad tira a lucido “i muri impuri” del Crveni soliter nel dopoguerra. Nello scritto di Cvijetić gli spazi bianchi sono eloquenti tanto quanto le righe stampate.
La guerra ha tolto a quelle morti ogni fascino romantico trascinandole in una vera tragedia alla Dostoevskij, che non potevano né sapevano gestire. La guerra ha dato alle kavane gli archi del tempio e un aspetto salvifico. La rakija è stata l’anestetico basilare per la trasformazione degli operai in soldati, nazionalisti, brutalmente sfruttati per uccidere il proprio paese.
Alla nutrita schiera di personaggi in carne ed ossa che popolano le vicende narrate, “la voce di Cvijeta attore” aggiunge due coprotagonisti d’eccezione. Il primo è la morte, una presenza che aleggia tuttora attorno al Condominio rosso, e che “non se n’è mai andata a mani vuote”. Il secondo è il maresciallo Tito nelle sue reincarnazioni di cartone create dai bambini del palazzo, una portata in processione con un carretto lungo il viale della cartiera, e l’altra fatta volare dal terrazzo come un aquilone. E lo stesso Crveni soliter è un Tito di mattoni, “più stropicciato e secco e spaventoso di quello di carta”, che agli abitanti di Prijedor parla così:
“Sì, sono stato fortunato” disse ai convenuti “io non sono morto per la patria. Solamente lei non ha avuto la mia stessa fortuna ed è morta per me!”.
foto: Darko Cvijetić/Bottega Errante
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