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L’ombra della Seconda guerra mondiale. Storia e memoria in Serbia e Croazia

Qual è stato il rapporto tra storia e memoria, nella Jugoslavia socialista e nei suoi stati successori? Di questo e del problema del revisionismo storico delle questioni legate alla seconda guerra mondiale ha parlato Mila Orlić, professore associato all’Università di Fiume (Rijeka), per il ciclo di incontri Venezia Legge i Balcani.

Le recenti commemorazioni del 9 maggio a Belgrado hanno illustrato, secondo Orlić, come le memorie pubbliche nei paesi successori della Jugoslavia continuano a focalizzarsi sulla seconda guerra mondiale, in linea con il resto d’Europa. I conflitti degli anni ’90 ne hanno tuttavia ridefinito la memoria in senso nazionale.

I primi decenni della Jugoslavia socialista

La Jugoslavia socialista, ricorda Orlić, aveva costruito la propria memoria ufficiale su due pilastri: esaltando la guerra di liberazione partigiana come lotta unitaria, condivisa tra tutti i popoli jugoslavi, e attribuendo le colpe delle atrocità all’oppressore nazifascista e ai collaborazionisti. Tali atrocità, compiute da ustascia, cetnici e altri gruppi, rischiavano infatti di minare le basi del nuovo stato jugoslavo federale e socialista. La nuova politica memoriale intendeva quindi rafforzare l’idea di fratellanza e unità (bratsvo i jedinstvo).

Allo stesso tempo, mentre il leader cetnico Draža Mihailović era stato catturato e condannato a morte nel 1946, la leadership del governo fantoccio filonazista dello Stato Indipendente Croato (NDH) era riuscita a fuggire all’estero, incluso il poglavnik Ante Pavelić, che era riparato in Argentina e (dopo un attentato nel 1957) nella Spagna franchista, dove morirà da uomo libero a fine 1959. Parlare pubblicamente di Jasenovac con Pavelić vivo e libero metteva a disagio la nuova leadership jugoslava.

Siamo d’altronde nel contesto del primo periodo postbellico, in cui – come spiega lo storico Tony Judt – l’Europa della ricostruzione vive una fase di generale rimozione, e le memorie pubbliche sono centrate sul ruolo eroico dei partigiani e sul ricordo dei caduti, mentre le vittime civili sono marginalizzate (sempre nel 1947 Primo Levi si vede rifiutato il manoscritto di Se questo è un uomo).

Nella prima biografia di Tito di Vladimir Dedijer del 1953, il lager di Jasenovac è a malapena menzionato. A lungo il campo manca di un luogo della memoria, e solo negli anni ’60 si progetta il poi famoso “fiore di pietra” di Bogdan Bogdanovic – alla cui inaugurazione, nel 1966, Tito non partecipò.

Gli anni ’80 e il nuovo paradigma della memoria 

Il panorama storiografico cambia negli anni ’80, spiega Orlić. Nel 1981, Dedijer pubblica i suoi “novi prilozi” sulla biografia di Tito, in cui dà ampio spazio a Jasenovac e alla persecuzione della popolazione civile serba nel NDH, enfatizzando le responsabilità della Chiesa cattolica guidata dal cardinale Stepinac. Il libro – che comunque discute anche delle intenzioni genocidarie dei cetnici verso i non-serbi – ha un enorme successo e produce un ampio dibattito pubblico.

Lo stesso anno Franjo Tudjman (allora dissidente nazionalista croato e storico di professione) è incarcerato per le sue tesi revisioniste, anche su Jasenovac. Nel libro “La deriva della realtà storica” del 1989, apice del revisionismo storico croato, Tudjman sostiene che a Jasenovac furono uccise appena 30-40,000 persone, invertendone l’ordine delle categorie (rom, ebrei, serbi) e sostenendo che si trattasse di un campo di lavoro e raccolta (saborni logor), e non di sterminio.

Gli anni ’80 in Jugoslavia sono segnati dal processo ad Andrija Artuković, già ministro degli interni del NDH – sorta di “processo Eichmann” jugoslavo, con grande attenzione mediatica e che scatena riletture del passato. Due opere letterarie si occupano del tema: il popolare romanzo Nož (coltello) di Vuk Drašković, del 1982 diffonde l’idea che la storia fosse stata manipolata e che le sofferenze nascoste della popolazione serba andassero riscoperte e raccontate. Anche il volume di Danko Popović, Knjiga o Milutinu, del 1985, racconta la sofferenza della popolazione serba nel NDH con focus particolare sui bambini – un elemento ricorrente della nuova narrativa centrata sulle vittime civili, come anche nell’odierno film Dara of Jasenovac.

Questa nuova narrativa, che poneva al centro i civili serbi, visti come vittime di altri popoli jugoslavi (e non più dei nazifascisti) è parallela alla rivisitazione della storia attraverso una prospettiva esclusivamente  nazionale. Intanto, sui periodici jugoslavi (Danas, Nin, Start, Duga…) si parla di una “congiura del silenzio” su tali temi (uno schema non dissimile da quello usato in Italia per la narrazione sulle foibe), sollevando anche il pericolo di un “nuovo genocidio” contro i serbi, in Kosovo come in Croazia, diffondendo anche idea di una “predisposizione genocidaria del popolo croato”.

In storiografia, intanto, gli storici cercano di riportare la discussione a criteri scientifici. Vladimir Žerjavić e Bogoljub Kočović  ridimensionano il numero delle vittime di Jasenovac a circa 500.000 in tutto – una cifra ben lontana tanto da quella di 83.145 (di cui 47.627 serbi), usata oggi dal memoriale di Jasenovac, quanto da quella ufficiale nell’Enciclopedia Jugoslava di 700.000 vittime, ancora oggi usata dai serbi di Bosnia nel loro memoriale a Donja Gradina.

Croazia e Serbia indipendenti

Con l’indipendenza della Croazia, Tudjman continua sul percorso del revisionismo storico e utilizza a più riprese richiami al NDH – che lui definiva non solo una creazione fascista ma espressione delle secolari aspirazioni del popolo croato – di cui recupera elementi e simbologia (moneta, bandiera, lessico, denominazione delle istituzioni) per creare forme di continuità nel passato nazionale.

Tra questi, anche Bleiburg si converte in sacrario del mito del martirio nazionale, assumendo valenza politica e pubblica, ruolo che ricopre ancora oggi e riuscendo con efficacia (anche se non senza contraddizioni) a manipolare la realtà storica del 1945. A contrario, Jasenovac è relegato ai margini della memoria pubblica, e con continue diatribe in occasioni delle commemorazioni annuali, ancora divise tra i due lati del fiume Sava. Ancora oggi sono solo circa 15 all’anno le scolaresche croate che si recano in visita al campo – quasi meno di quante non lo visitino dall’Italia stessa – mentre secondo i sondaggi un’ampia percentuale di giovani croati non ritengono che NDH fosse di natura fascista.

In Serbia, dopo il revisionismo degli anni ’80 e il decennio di Slobodan Milošević, le memorie pubbliche mutano ancora a partire dal 2003, da quando viene riabilitato il movimento cetnico, equiparato al movimento partigiano – come illustrato dalla commemorazione del 9 maggio 2021, con le gigantografie accostate di Tito e Draža Mihailović e le canzoni di collaborazionisti serbi.

Eppure, un diverso approccio a Jasenovac e ai crimini della seconda guerra mondiale sarebbe possibile. Ne è esempio il film Dnevnik Diane Budisavljević, del 2019, che racconta il salvataggio di oltre 10.000 bambini serbi della regione del Kozara da parte di una attivista umanitaria austro-jugoslava.

“Predire il futuro è semplice, è il passato che continua a cambiare”: una battuta sovietica, riportata da Tony Judt, che indica come le rappresentazioni del passato siano mutevoli. Nuove manipolazioni e ricostruzioni possono essere usate come potenziale per nuove guerre e conflitti, conclude Orlić.

Foto: Wikipedia

Chi è Andrea Zambelli

Andrea Zambelli è uno pseudonimo collettivo usato da vari membri della redazione di East Journal.

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