È l’11 giugno 2016, mi trovo su un treno regionale tedesco che è partito dalla stazione di Basel SBB, in Svizzera. Siamo entrati in Germania già da una buona mezz’oretta, ma il 4G del mio smartphone non ne vuole sapere di caricare la pagina che mi interessa. Poi, finalmente, il lampo. La pagina si carica e davanti ai miei occhi compare il risultato della partita che vorrei tanto guardarmi davanti alla televisione. Ciò che vedo sullo schermo del mio apparecchio mi rovina la giornata e mi toglie qualsiasi speranza. Svizzera in vantaggio per uno a zero e Albania con un uomo in meno. Lorik Cana è stato espulso dopo la mezz’ora di gioco e ora mancano pochi minuti alla fine del primo tempo. Tra una quindicina di minuti dovrei arrivare a destinazione, poi altri dieci minuti dalla stazione a casa. Riuscirò a guardarmi almeno l’ultima parte del secondo tempo, ma non ne ho più molta voglia.
Fratelli contro
Albania contro Svizzera significa tante cose. In primis, il debutto assoluto della nazionale albanese a un Europeo. Il miracolo non poteva che arrivare con un allenatore italiano sulla panchina, Gianni de Biasi. Rinominato dal popolo albanese “Gani” (nome albanese) ed entrato per sempre nei loro cuori.
Un evento del genere poteva essere messo in secondo piano soltanto da un qualcosa di teoricamente impossibile. Ovvero due fratelli che vestono le maglie di due nazionali diverse. È il caso dei Xhaka. Granit per la Svizzera, Taulant per l’Albania. È l’elemento che ha attirato l’attenzione di stampa e tifosi su questa partita, che altrimenti sarebbe filata via come una classica gara non di cartello. Ma se loro sono fratelli di sangue, ce ne sono altri non di sangue che si trovano a sfidare la nazionalità della propria famiglia. È il caso di Shaqiri, Behrami, Dzemaili, Mehmedi e Tarashaj. Tutti ragazzi di origini albanesi, due del Kosovo e due della Macedonia del Nord. Tutti che hanno deciso di difendere i colori del paese dove sono cresciuti, la Svizzera.
Essere e sentirsi albanese è un sentimento viscerale, qualcosa di difficile da spiegare a chi non lo è. Questa partita, più che la possibilità di mostrare il proprio talento in una competizione importante come l’Europeo, per loro sembra essere una condanna.
Lorik, l’albanese
Il popolo albanese, nel corso degli anni, si è trovato costretto a emigrare in diversi paesi. Per restare in Europa, le mete più raggiunte sono state l’Italia, per gli albanesi dell’Albania. Mentre la Svizzera e la Germania per gli albanesi del Kosovo e della Macedonia del Nord. Per un figlio di emigrati, crescere e diventare calciatore professionista in questi paesi, ha significato avere la possibilità di essere convocato da nazionali di un certo livello, come appunto Svizzera e Germania.
C’è però un caso, che spiega bene cosa significa sentirsi ed essere albanese. È Lorik Cana, conoscenza anche del calcio italiano. Nato a Prishtina, lascia il Kosovo da piccolo e si trasferisce in Svizzera. Qui inizia la sua carriera da calciatore, precisamente nel Losanna. Il suo talento gli apre le porte del Paris Saint Germain e di conseguenza arriva il momento di scegliere per quale nazionale giocare. Cana ha tre scelte a disposizione, visto che possiede tre passaporti diversi: Francia, Svizzera e Albania. Inutile dire che vantaggi porterebbe alla carriera scegliere tra le prime due. Cana sceglie l’Albania. Scelta che gli costerà l’impossibilità di poter partecipare a competizioni come Mondiali o Europei, a causa di una nazionale che per anni non è in grado di essere competitiva abbastanza. Ma poi arriva il miracolo e Lorik Cana è il perno del capolavoro costruito da Gianni de Biasi. E rappresentare l’Albania, al suo debutto in una competizione internazionale, con la fascia di capitano, è qualcosa che ripaga quella scelta fatta con il cuore.
Chi sono?
Arrivo a casa quando l’ora di gioco è passata da un paio di minuti. Mi siedo sul divano e vengo avvolto dalla tensione che si è formata davanti alla tv. Mio padre fatica a stare seduto, mio fratello incita a più non posso e mamma si dispera a ogni errore della nazionale albanese. La stanchezza delle sei ore di treno che mi sono servite per tornare a casa da Milano, iniziano a farsi sentire. Osservo la partita in maniera passiva, anche perché la testa è bombardata da pensieri, dubbi e domande. La telecamere continuano a inquadrare la madre dei fratelli Xhaka, che per l’occasione si è presentata allo stadio con una maglietta che ha sul petto una bandiera metà albanese e metà svizzera. Mi domando se ci sia qualcosa di cui andare fieri nell’avere due figli che giocano per due paesi diversi. Mi chiedo se mi sarei mai permesso di difendere i colori del paese dove sono cresciuto, ma mi rispondo subito di no. Perché mi sarebbe sembrata una mancanza di rispetto nei confronti del popolo italiano.
Durante qualche pausa di gioco viene mostrato il gol del vantaggio svizzero e vedere i ragazzi di origine albanese esultare mi fa arrabbiare. La partita finisce. La Svizzera vince uno a zero. Io rimango inchiodato al divano, quasi impossibilitato a muovermi, bloccato da pensieri, dubbi e domande. In tv partono gli highlights della gara e vedo come si è concretizzata l’espulsione di Lorik Cana. Lo vedo uscire dal campo, dopo aver toccato il pallone con la mano per evitare il 2 a 0 della Svizzera. Lo guardo e ci vedo tutto quello che mi sarebbe piaciuto essere. Un albanese, che si è comportato da tale, anche quando avrebbe fatto più comodo mettere le proprie origini in secondo piano, per interesse personale. Mi alzo e vado a farmi la doccia, deluso dal risultato, ma cosciente di aver trovato una persona da prendere come esempio.
Immagine: Logo Uefa/Wikipedia