Fin dai primi anni Venti del Novecento l’archeologia ha svolto in Turchia un compito delicato, complesso e gravido di responsabilità. Quando è stato fondato il moderno stato turco, nel 1923, si è subito palesata l’esigenza di creare un sentimento nazionale in quello che fino ad allora era un territorio frammentato e diviso in una moltitudine di realtà etniche; in quel contesto l’archeologia, che nei decenni precedenti era stata portata avanti sul terreno da svariate missioni europee, assunse un’importanza fondamentale.
Legittimare la propria identità culturale attraverso la creazione di modelli storici nazionali è una pratica tipica degli stati-nazione fin dal loro fondamento. Attingere da un passato mitico – vero o presunto – per enfatizzare una continuità o per creare una storia comune che dia l’idea dell’unità di un popolo, spesso definito in contrapposizione con l’altro, è un processo ricorsivo. In Europa, dove questo atteggiamento aveva contribuito a formare la base culturale per guerre disastrose, si è cercato di porvi rimedio tentando di recuperare un’identità storico-culturale europea e di usarla come collante per superare le logiche identitarie dei singoli paesi. Un esempio più unico che raro.
Archeologia e retorica nazionalista
In Turchia il processo di messa in discussione di modelli storici pregni di nazionalismo è tutt’altro che iniziato, anzi si riscontra una tendenza sempre maggiore all’uso della storia e dell’archeologia come strumento di legittimazione del potere.
Anche se le missioni archeologiche straniere in territorio turco sono tuttora presenti, c’è una marcata tendenza del governo a limitare i permessi di scavo per le squadre straniere, in favore di enti di ricerca nazionali. Questo, di per sé, non è necessariamente un male; spetta al governo, infatti, concedere le licenze ed è nelle sue prerogative cercare di sviluppare e sostenere la ricerca nazionale. Quello che fa riflettere è il tentativo della politica di piegare all’ideologia, al nazionalismo e all’opportunismo economico l’intera questione della ricerca archeologica e della musealizzazione dei suoi reperti.
Il governo turco infatti mostra, tra le altre cose, la tendenza a usare il proprio potere sulle concessioni di scavo come mezzo di leva e di rappresaglia verso i paesi stranieri che operano sul suo territorio. Emblematico, a questo proposito, è l’atteggiamento assunto relativamente alla questione degli oggetti storici di origine turca che si trovano in alcuni musei stranieri, come le sfingi ittite di Ḫattuša che la Germania ha dovuto restituire per non vedersi negata la continuazione di uno scavo in cui università tedesche sono impegnate da decenni.
A prescindere dal fatto che le rivendicazioni di Ankara su molti di questi oggetti siano condivisibili oppure no, quello che è inquietante è il portato ideologico che le richieste di restituzione si portano dietro. Piuttosto che aprire seri canali di trattativa diplomatica e impegnarsi su un dibattito complesso e interessante come quello della restituzione degli oggetti storico-artistici, il governo turco tende a trasformare tutto quanto in una disputa politica volta a solleticare le tendenze nazionaliste dell’opinione pubblica, condendo una questione complicata con dell’inutile xenofobia.
Storia come strumento di potere
Se si unisce tutto questo con la percezione che la maggioranza della classe politica ha dell’archeologia, cioè che essa debba essere uno strumento per portare alla luce il glorioso passato turco, si dipinge un quadro piuttosto inquietante, nel quale rientra anche l’annosa questione di Hagia Sophia. La grande basilica bizantina, nel 1935, era stata trasformata in un museo per volere di Atatürk ma, nel 2020, è stata riconvertita in moschea da Recep Tayyip Erdoğan alla ricerca ossessiva di continuità con il passato ottomano del paese.
Nonostante gli interessi ideologici del governo dell’Akp siano difficilmente rintracciabili nella grande tradizione storica anatolica che è, per la maggior parte del suo grandioso passato, inequivocabilmente pagana e perciò difficilmente inquadrabile nella mitologia neo-ottomana tanto cara al presidente, lo stesso le si affianca una retorica di tipo nazionalistico.
Così come, anche in mancanza della reale presenza di un costrutto storico basato sulla Turchia e sull’Islam precedente all’undicesimo secolo dopo cristo, si cerca di trasformare tutta quanta l’archeologia in uno strumento politico. Un’operazione che viene portata avanti sia sfruttando il discorso sulla “grande civiltà anatolica”, che enfatizza il ruolo civilizzatore delle stirpe sull’intera regione, sia enfatizzando la contrapposizione con l‘altro, lo straniero, al quale opporre la grandezza della ricerca nazionale, presentata come un’eccellenza capace di imporsi nel panorama internazionale e di generare un notevole indotto economico grazie al turismo.
Quello che si cerca di far attecchire nell’opinione pubblica è l’idea dell’esistenza di popoli primordiali territorialmente stanziati in Anatolia, con un’identità collettiva prodotta attraverso le epoche e perfezionatasi con l’arrivo della stirpe turca, motore per il raggiungimento di un amalgama ottimale che si esprime al meglio nella nazione contemporanea. Una narrazione che va a discapito di tutte le altre componenti etniche, marginalizzate da questo tipo di retorica. Con il risultato che il patrimonio archeologico curdo e armeno è, secondo l’opinione di molti, consapevolmente trascurato per ragioni strettamente politiche.
Questo tipo di atteggiamento è difficile da contrastare anche da parte di quegli archeologi che vorrebbero un dibattito pubblico in grado di discutere un certo tipo di politiche. Sfortunatamente molte istituzioni mancano dell’autonomia accademica, scientifica e finanziaria che potrebbe dare loro voce in capitolo in questo processo. Alcuni ricercatori lamentano inoltre che i musei siano ridotti al ruolo di “glorificati magazzini”, in balia del controllo statale e delle procedure burocratiche, senza alcun accesso al processo decisionale e nessuna partecipazione attiva allo sviluppo di una vera politica archeologica.
Foto: Dario Nincheri/East Journal