Di recente abbiamo assistito a un coinvolgimento crescente da parte del mondo dello sport in tema di diritti umani e discriminazioni…
Il linguaggio politico, ormai, non si esprime soltanto attraverso i canali dei suoi diretti rappresentanti. Depotenziate e smontate dalle frasi fatte che si susseguono, quando non ammantate da un’ombra di scarsa credibilità, le dichiarazioni dei politici vengono superate sempre più spesso da quelle di altri soggetti impegnati in una causa. La comunicazione diretta dei social e quella visiva contribuiscono ad accelerare tale processo.
In senso sportivo, da questo punto di vista, ultimamente abbiamo assistito al fenomeno di un coinvolgimento crescente da parte degli atleti. La risposta compatta dello sport professionistico statunitense all’uccisione di George Floyd, con lo schieramento a favore di Black lives matter, ci ha riportato alla memoria altre proteste precedenti dello stesso tipo: basti pensare alle magliette I can’t breathe indossate per la prima volta in NBA dopo la morte di Eric Garner nel 2014, o al caso di Colin Kaepernick in NFL, che nel 2016 per denunciare le violenze della polizia nei confronti degli afroamericani iniziò a inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno nazionale. Kaepernick fu presto imitato da altri sportivi professionisti statunitensi, ma pagò il suo gesto rimanendo senza squadra.
L’impegno politico tra gli sportivi statunitensi ha radici molto antiche, che perdurano nella convinzione che un buon cittadino debba essere anche buon atleta, e viceversa; mentre in Europa lo sport è stato concettualmente maltrattato fino a ridurlo a pratica incapace di veicolare messaggi sociali importanti, e politici ancora meno. Proprio dalla seconda metà del 2020, tuttavia, anche nel nostro continente qualcosa sembra muoversi. Certo, non siamo ancora arrivati al boicottaggio dell’evento sportivo, come accaduto negli Stati Uniti dopo gli spari della polizia contro Jacob Blake: nell’agosto 2020, a seguito di quel fatto, in NBA i Milwaukee Bucks si rifiutarono di disputare gara 5 dei playoff contro Orlando Magic, subito imitati da varie altre compagini. LeBron James, cestista dei Los Angeles Lakers e uno dei più importanti sportivi al mondo, si è fatto portavoce delle richieste dei giocatori sul tema delle diseguaglianze razziali.
Paradossalmente, proprio una polemica tra Zlatan Ibrahimović e LeBron James, come plasmata sulle distanze in tema tra Europa e America settentrionale, parrebbe aver avvicinato le parti: a Ibrahimovic, che asseriva che la politica non è per tutti e che non fa altro che dividere, LeBron James aveva risposto che lui mai avrebbe taciuto di fronte ad un’ingiustizia. Sarà perché da quel momento (siamo a febbraio-marzo di quest’anno) i giornali hanno cominciato a farci più caso, certo è che anche in Europa gli sportivi, ultimamente, paiono più consapevoli del proprio ruolo politico.
La Norvegia e i Mondiali in Qatar
L’inizio delle qualificazioni per i prossimi Mondiali di calcio in Qatar (21 novembre-18 dicembre 2022) ha concentrato l’attenzione sulle condizioni dei lavoratori impegnati nella costruzione degli stadi che ospiteranno l’evento: secondo un’inchiesta di “The Guardian”, dal 2010 ad oggi in Qatar sarebbero morti oltre 6.500 migranti, la maggior parte dei quali addetti proprio all’impiantistica. A protestare per primi contro questo stillicidio senza fine sono stati i calciatori norvegesi, che, in occasione della partita contro Gibilterra, hanno indossato una t-shirt bianca con la scritta in nero: Human rights: on and off the pitch, ovvero: “Diritti umani: dentro e fuori dal campo”. La nazionale tedesca impegnata contro l’Islanda, il giorno seguente, ha seguito l’esempio dei norvegesi, formando la scritta HUMAN RIGHTS: ogni giocatore indossava una maglietta nera con un solo, enorme carattere.
Nella successiva partita di qualificazione, contro la Turchia, la Norvegia ha indossato una t-shirt con lo stesso messaggio della volta precedente, ma con l’aggiunta di un invito alle altre nazionali: Norway, Germany, Next?, ovvero: “Norvegia, Germania, chi sarà il prossimo?”. Danimarca, Olanda e Belgio hanno risposto prontamente, indossando a loro volta una maglietta con la scritta: Football supports change, cioè: “Il calcio sostiene il cambiamento”. Sul suo profilo Twitter, la federazione belga ha riportato in modo esplicito: “Combattiamo attivamente il razzismo e non ignoriamo i problemi in Qatar. Con questa azione simbolica chiediamo agli organismi internazionali e a tutte le federazioni di intensificare la protesta”.
Anche singoli calciatori sono intervenuti sul tema, corroborando la sensazione che mai prima il calcio avesse espresso un’inclinazione politica di questo genere. Belgio, Danimarca, Germania e Olanda non sono comunque favorevoli al boicottaggio delle restanti gare di qualificazione, poggiando la loro scelta sulle opinioni delle grandi organizzazioni per i diritti umani, che non ritengono utile questo tipo di protesta alla causa dei lavoratori migranti in Qatar. La Norvegia, invece, pare aver preso una strada a sé. Subito dopo l’uscita dell’inchiesta, il 26 febbraio la società del Tromso ha chiesto alla propria Federazione di boicottare i Mondiali e subito si sono allineate altre sei compagini, tra cui le più importanti in Norvegia, nonché 14 su 16 associazioni riconosciute dei tifosi. Dal canto suo la Federazione norvegese, che non è favorevole al boicottaggio proprio in un’edizione in cui le possibilità di qualificarsi paiono più alte del solito, è riuscita a rimandare al 20 giugno la decisione cui è stata chiamata dal mondo del calcio. Benché le proteste, al momento, non abbiano spostato di una virgola quanto accade in Qatar, è pur vero che è difficile prevedere fin dove si spingeranno le azioni di contestazione da parte delle nazionali europee.
Inghilterra vs Polonia
Una delle partite più attese del terzo turno delle qualificazioni Mondiali, la sfida tra Inghilterra e Polonia (finita 2 a 1), è stata preceduta da varie anticipazioni su quello che sarebbe stato il comportamento dei giocatori polacchi. Al ritorno in campo nell’estate 2020, infatti, le compagini di Premier League hanno indossato per dodici partite sulla maglia la scritta Black lives matter al posto dei nomi dei singoli atleti e tuttora si inginocchiano prima dell’inizio delle ostilità in campionato. Così fa la nazionale inglese, che a Wembley si è trovata di fronte una Polonia dal canto suo poco propensa alla solidarietà sul tema. Per vari giorni a Varsavia si sono susseguiti i suggerimenti e i consigli nei confronti dei giocatori del neoallenatore portoghese Paulo Sousa, che hanno optato per un compromesso: non si sono inginocchiati, infatti, ma subito prima del fischio d’inizio, mentre i giocatori inglesi esprimevano solidarietà a Black lives matter, hanno indicato la scritta Respect sulla manica delle loro maglie. Hanno ritenuto di mantenere fede, così, a quanto espresso dalla Federazione polacca: “I giocatori della nazionale polacca hanno assunto una posizione neutrale e apolitica. Allo stesso tempo, sottolineiamo che tutti i nostri rappresentanti sono solidali nei confronti di qualsiasi manifestazione di razzismo e intolleranza”.
La posizione dei calciatori polacchi, evocata sui social dalla maggior parte dei tifosi più caldi con la campagna nie klękamy (non inginocchiamoci), e certamente vicina a quelli che sono gli orientamenti governativi sul tema, è stata però rivendicata da movimenti ugualmente nazionalisti e sovranisti: segno evidente che, ancora una volta, dietro al compromesso si nasconde una scelta politica. Tra gli altri Hermann Tertsch, europarlamentare spagnolo di Vox, ha scritto sul proprio profilo Twitter: “Un’immagine storica, una battaglia culturale, una guerra di civiltà: Inghilterra multiculturale e Polonia nazionale. Inghilterra in ginocchio, Polonia in piedi”.
D’altro canto, va anche sottolineato che, prima di disputare l’ultima di campionato contro il Pogoń Stettino, i giocatori del Legia Varsavia hanno indossato una maglietta in sostegno dell’ex nuotatrice bielorussa Aljaksandra Herasimenja, medaglia d’argento a Londra, che dirige la Fondazione Sportiva di Solidarietà ed è minacciata di una pena detentiva molto lunga per aver denunciato le condizioni del Paese sotto Lukashenko.
La questione del Kosovo
Attualmente il Kosovo continua a non essere riconosciuto da 91 stati nel mondo; cinque di questi si trovano in Europa e due di loro dovranno vedersela proprio con il Kosovo per accedere alle fase finali dei Mondiali: Grecia e Spagna, infatti, sono state inserite nello stesso girone. Anche una terza compagine, la Georgia, inserita nel raggruppamento del Kosovo non ne riconosce l’indipendenza. In occasione della sfida con le Furie rosse spagnole, abbiamo dunque assistito con curiosità a quanto sarebbe accaduto: in questo caso non si trattava di una rivendicazione politica esercitata dai calciatori, ma dalla Federazione spagnola stessa. Preoccupata all’epoca che l’indipendenza del Kosovo potesse attrarre analoghe rivendicazioni all’interno del proprio territorio, la Spagna si è trovata molto tempo dopo ad avere a che fare in termini sportivi con una nazione non riconosciuta.
Il linguaggio si è dovuto quindi adattare a questo pericolante equilibrio diplomatico, creando inevitabilmente imbarazzo. La Federazione spagnola, nel suo account Twitter, aveva annunciato la partita contro “il territorio del Kosovo”, mentre i giornali hanno usato la definizione: “Selección de la federación de fútbol de Kosovo” e gli inni delle squadre sono stati presentati come “inni della partita” (e non nazionali). Ad inchiodare i giornalisti spagnoli ad un utilizzo differente del linguaggio è stato l’addetto stampa kosovaro, che durante la conferenza precedente l’incontro ha chiesto all’inviato di “As” a quale allenatore avesse rivolto la sua domanda, perché il nome della loro nazione non era mai comparso sui media locali: “Coach of? Coach of?” La risposta di mister Bernard Challandes è giunta solo quando il giornalista ha detto di rivolgersi all’allenatore della nazionale del Kosovo. Per la cronaca, la partita è poi finita 3 a 1 per la Spagna.
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*Alessandro Ajres è docente di lingua polacca presso l’università di Torino e presidente del circolo culturale Polski kot
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