Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con OBCT
A sette anni dall’inizio dei primi scontri armati nell’est del paese, i venti di guerra non sembrano smettere di soffiare sul Donbas. Il conflitto, che sembrava aver superato la sua fase più calda, non è in verità mai terminato. Oggi però, con l’intensificazione dell’attività militare su entrambi i lati della linea di demarcazione e con i movimenti di truppe nelle regioni russe confinanti con l’Ucraina, il pericolo di un conflitto aperto tra Russia e Ucraina sembra di nuovo all’ordine del giorno. Ma quali sono le cause di questa nuova escalation in Donbas e perché proprio ora?
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La guerra retorica
Il dislocamento di truppe russe lungo il confine con l’Ucraina e in Crimea, solo parzialmente giustificato da manovre interne ed esercitazioni, ha scatenato anche un’escalation retorica. Kiev accusa direttamente il Cremlino di violare costantemente il cessate il fuoco in Donbas e di voler provocare una reazione dell’esercito ucraino per scatenare una guerra su vasta scala. Alcuni dei soliti esperti – come quelli del think tank Atlantic Council – hanno colto l’occasione per riproporre gli annuali “piani di Putin” per un’invasione diretta dell’Ucraina. Mosca dal canto suo giustifica le manovre come puramente difensive, puntando il dito sulla controparte ucraina e i suoi ‘sponsor’ dell’Alleanza Atlantica (NATO) per la crescente tensione.
La posizione di Mosca
L’aspetto militare in verità è solo la punta dell’iceberg della tensione che ha caratterizzato le relazioni tra Mosca e Kiev negli ultimi mesi. Da una parte, infatti, la posizione del Cremlino sul conflitto nel Donbas rimane intransigente. Se con l’elezione di Volodymyr Zelensky l’Ucraina aveva sperato di riuscire a spuntare una serie di concessioni da parte del Cremlino, dopo i primi (pochi) segnali incoraggianti come il completo cessate il fuoco, lo spazio di manovra per Kiev si è drasticamente ridotto. Su ogni possibile accordo, Kiev ha continuato a battere la testa su un muro di gomma, quello del Cremlino. Mosca continua ad insistere su un rigoroso rispetto degli accordi di Minsk: status speciale alle regioni separatiste, elezioni locali e, solo dopo, ritorno del controllo di Kiev sul confine tra Ucraina e Russia. Posizione inaccettabile per il presidente ucraino.
Tra propaganda e paranoia
La macchina della politica estera russa, però, non è solo guidata dal freddo calcolo geopolitico come in molti sono abituati a pensare. Come tutta la vicenda ucraina dimostra, dall’annessione della Crimea alla guerra in Donbas, le decisioni sono anche prese sulla base di una determinata visione di “sé” e degli “altri”.
Quella che definiamo propaganda, vedendola spesso solo come strumento d’influenza esterna, è in molti casi prodotto ‘genuino’ della visione del ruolo della Russia e del mondo circostante di alcuni (non tutti) gruppi influenti all’interno del Cremlino – soprattutto quelli militari e dei servizi segreti. Se il sostegno, seppur spesso solo retorico, alle cosiddette rivoluzioni colorate sono sempre state percepite dalla Russia come un tentativo di Washington di indebolire la Russia, il crescente coinvolgimento della NATO in Ucraina con una serie di esercitazioni militari congiunte pianificate per il 2021 (con fino a 2000 soldati americani che stazioneranno nel paese) è visto da Mosca come una vera e propria minaccia esistenziale.
Le giravolte di Kiev
A complicare le cose, infatti, ci sono le dinamiche interne all’Ucraina. In due anni da presidente, Zelensky ha praticamente dissipato tutto il suo capitale politico. Le promesse della campagna elettorale – dalla pace in Donbas all’opposizione alle misure draconiane imposte dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), dalla nuova riforma della sanità alla questione linguistica – si sono ben presto rivelate solo parole. In buona misura spinto da un drastico calo di consensi, il ‘servo del popolo’ negli ultimi mesi sembra aver attuato un chiaro cambio di rotta, distanziandosi dall’apertura iniziale nei confronti di Mosca e cercando di (ri)guadagnare legittimità puntando sul fronte nazionalista interno e sul consueto supporto dell’Occidente. Questo cambio di rotta si è sostanziato in una campagna contro (alcuni) oligarchi e l’introduzione di sanzioni contro Viktor Medvedčuk, politico (e oligarca) ucraino ritenuto essere molto vicino a Putin e fino a poco tempo fa, di fatto, il tramite tra Kiev e Mosca nei negoziati sulla situazione in Donbas.
A seguire c’è stata la chiusura (con appigli legali che sembrano piuttosto deboli) di tre canali televisivi ritenuti essere filo-russi. Ma non solo, Kiev ha progressivamente irrigidito la propria posizione nei negoziati sul Donbas, giungendo addirittura a suggerire il cambio di location per futuri incontri, in quanto la Bielorussia sarebbe “sotto influenza diretta della Russia”. Il tutto è stato recentemente enfatizzato dalla nuova dottrina strategica che non solo si focalizza “sull’aggressione russa”, ma ripropone rinnovate aspirazioni dell’ingresso nella NATO. In poche mosse, insomma, Zelensky sembra aver superato il suo predecessore, quel Petro Porošenko che sulla retorica nazionalista e anti-russa aveva costruito i propri cinque anni di presidenza. Una nuova escalation, paradossalmente, potrebbe giovare al presidente in carica oltre che all’apparato militare – che con l’ascesa di Zelensky aveva visto diminuire la propria importanza.
Il fattore Washington
A giocare un ruolo importante, infine, sono anche le nuove dinamiche nel contesto internazionale. Per Mosca, infatti, le giravolte di Zelensky non sono solo frutto del suo rapido calo di consensi, ma anche – e per certi versi soprattutto – della nuova politica estera del neoeletto presidente americano, quel Joe Biden che proprio di Ucraina e Russia si occupava quando era il vice di Barack Obama.
Biden è un volto noto per Mosca, cosi come sono note le posizioni nei confronti della Russia di alcuni dei membri della sua squadra di politica estera (come Victoria Nuland, nuovo Sottosegretario di Stato per gli affari politici). Al Cremlino ci sono pochi dubbi che uno dei cardini della nuova politica di contenimento da parte degli USA sarà proprio l’Ucraina. Proprio con questa chiave di lettura vengono interpretate alcune recenti politiche di Zelensky, considerate da Mosca anti-russe, e l’avvicinamento, per ora solo retorico, tra Kiev e Washington, sostanziato dalla simbolica telefonata tra il presidente ucraino e quello americano.
Uno scontro imminente?
Per tutte queste ragioni appare difficile prevedere futuri sviluppi sul fronte ucraino. Quello che i fatti per ora ci suggeriscono è che la Russia stia usando in maniera piuttosto spregiudicata quella che viene comunemente definita come ‘diplomazia coercitiva’.
L’intento non è quello di vedere le proprie truppe invadere l’Ucraina, quanto piuttosto quello di tirare la corda nel conflitto politico e retorico con Kiev e, indirettamente, con Washington. Un modo di dimostrare prima di tutto che il conflitto nel Donbas non può essere risolto (e nemmeno congelato) senza concessioni da parte di Kiev e al di fuori del formato di Minsk, tanto caro al Cremlino. In secondo luogo, segnalare ai partner occidentali di Kiev (in primis alla nuova amministrazione Biden) che la Russia è disposta e capace di utilizzare ogni mezzo per difendere i propri interessi in quella che tutt’ora considera la propria sfera d’influenza. Tirare la corda, appunto, per vedere se e quanto oltre al solito sostegno retorico gli Stati Uniti di Biden – e in misura minore alcuni membri dell’UE – siano disposti a spingersi nel quadrante ucraino.
Anche senza un vero interesse nel conflitto con Kiev, il pericolo più grande è dato dall’incertezza che la politica del ‘rischio calcolato’ comporta, oltre alla consueta difficoltà di capire fino a che punto la Russia sia disposta a tirare la corda, prima che essa si spezzi.
Immagine: Dmitrij Muravskij/flickr