Dopo 118 minuti senza reti, io e mia cugina eravamo un po’ annoiati sul divano, in una delle prime sere calde dell’estate 2008, mentre Turchia e Croazia si giocavano l’accesso alle semifinali dell’Europeo di calcio. Poi Luka Modrić aveva recuperato un pallone sulla linea di fondo e lo aveva spedito verso l’area, trovando la testa di Ivan Klasnić: uno a zero. La Croazia era a un passo dal sogno, in vantaggio di un gol a pochi secondi dallo scadere dei tempi supplementari. Mia cugina era felice, io un po’ meno. Poco dopo, però, la Turchia portava il pallone nella metà campo croata per un ultimo assalto. Dopo un lancio lungo in area, Semih Şentürk spediva il pallone nella rete dei croati e portava la partita ai calci di rigore. Io ero felice, mia cugina un po’ meno.
I croati arrivarono ai calci di rigore provati dall’altalena dei due minuti finali di gara, al contrario dei turchi, caricati da una rimonta quasi impensabile pochi minuti prima. I giovani Luka Modrić e Ivan Rakitić non riuscirono a trovare nemmeno la porta, il tiro di Mladen Petrić fu respinto da Rüştü Reçber e la Turchia si qualificò tra le quattro migliori squadre d’Europa. Mia cugina era un po’ triste, ma il fatto non le avrebbe rovinato la giornata. A me, invece, del risultato finale non importava molto: volevo solo vedere i calci di rigore.
La festa a Sarajevo, gli scontri a Mostar
Io e mia cugina ci trovavamo a Gradačac, una piccola cittadina del nord della Bosnia-Erzegovina. La Croazia non era lontana più di 15 km e, per via del miglior segnale, guardavamo la partita sulla televisione croata, in compagnia dei telecronisti Božo Sušec e Igor Štimac, euforici al 119′ e disperati al 121′. A noi, invece, importava molto meno.
Non era così per tutti in Bosnia. Il conflitto armato che ha opposto, tra il 1992 e il 1994, i separatisti croati supportati da Zagabria (HVO-HB) e l’esercito dell’allora Repubblica di Bosnia-Erzegovina (ARBIH) aveva lasciato fratture profonde. Negli anni dopo la guerra, invece, il confronto tra le formazioni politiche nazionaliste aveva approfondito il solco tra le parti, rinnovando sul piano simbolico il conflitto militare.
Da questo passato e da questo presente derivava sia il disinteresse di alcuni bosniaci verso le sorti della Croazia sia l’aperto sostegno di altri alla Turchia, vista con favore anche in virtù della comune fede musulmana. Così, al gol di Semih Şentürk molti a Sarajevo avevano esultato. E non perché volessero vedere i calci di rigore. All’errore di Mladen Petrić, molti erano usciti in strada per festeggiare con clacson, cori e bandiere turche.
Nella Mostar divisa tra bosgnacchi e croati era andata diversamente. La città era sorvegliata in vista della partita, con un alto numero di forze dell’ordine impegnate a evitare disordini. Nella parte Ovest della città c’erano solo scacchiere croate; nella parte Est, invece, da tempo non si vedevano così tante mezzelune su sfondo rosso. Al termine della partita, le due tifoserie si sono scontrate per le vie della città, con sassaiole, cassonetti incendiati, vetrine in frantumi, sedici feriti e altrettanti arrestati. Similmente a Žepče, altro centro diviso tra bosgnacchi e croati, c’erano stati due feriti.
Mia nonna non sapeva
A Gradačac, invece, non era successo nulla e per le strade non era sceso nessuno. Nonostante ciò, ricordo vagamente il fastidio mal controllato di parte dell’opinione pubblica croata nei confronti della festa di Sarajevo e la soddisfazione con cui i giornali croati avevano accolto l’eliminazione della Turchia nel turno successivo contro la Germania.
Non ricordo bene il clima di quei momenti, ma ricordo che a mia nonna non importava nulla né della Turchia, né della Croazia, né degli scontri, né dei festeggiamenti. Nonostante questo, nei giorni successivi alla partita, dopo aver ascoltato a lungo l’offensiva dei giornali croati, disse che lei era molto felice della vittoria turca.
Non so se avrebbe detto la stessa cosa se avesse visto la partita, se avesse sentito il nome del ragazzo che giocava con la maglia croata sulla fascia destra quella sera: Darijo Srna era un calciatore che lei non conosceva ma il cui cognome riportava alla mente, tra la nebbia del ricordo, la figura di Uzeir Srna, un orfano che sedeva, tanti anni prima, a pochi metri da lei nelle classi della scuola elementare di Šamac, la cittadina sulla Sava in cui era nata e cresciuta.
Non lo sapeva e lo avrebbe scoperto solo anni dopo, quando la morte di Uzeir e il suo difficile percorso di vita avrebbero riempito le pagine dei giornali di Croazia e Bosnia-Erzegovina. Quell’orfano che ricordava a malapena, un compagno di classe come tanti, era il padre di Darijo Srna. Non sembrava volerlo ricordare nessuno nel 2008: il ragazzo che sarebbe diventato il capitano di quella Croazia era figlio di un padre bosgnacco e di una madre croata.
Avrebbe fatto la differenza saperlo? Penso di no. Penso anche che molti lo sapessero, come molti sapevano che per le sue origini Darijo Srna era stato inizialmente rifiutato dall’Hajduk Spalato, la squadra in cui poi è cresciuto, perché il figlio di un musulmano non era esattamente il benvenuto in un club croato nel 1999.
Il ricordo di Uzeir avrebbe probabilmente fatto effetto su mia nonna, ma temo che il rumore del presente sarebbe stato comunque troppo forte. Per una bosniaca tifare la Croazia allora era difficile e lo è ancora oggi. Persino coloro che si dichiaravano neutrali in quei giorni in fondo stavano prendendo in modo sommesso le distanze dai croati. E io che volevo vedere i calci di rigore e mia cugina che tifava la Croazia non capivamo molte cose. In fondo, avevamo solo 12 anni.
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