A partire dal collasso dell’Unione Sovietica, i leader degli stati centroasiatici hanno spesso fatto sfoggio della libertà religiosa garantita all’interno dei loro paesi come prova evidente di democrazia, a dispetto di quello che accadeva prima dell’indipendenza. Ma è davvero così?
L’islam nell’Asia Centrale sovietica
Non è corretto affermare che durante l’Unione Sovietica la religione fosse stata completamente abolita. La sfera religiosa fu fortemente limitata e subordinata allo stato, ma mai pienamente soppressa. In tutta l’Urss, il Consiglio per gli affari religiosi monitorava l’applicazione della legislazione riguardante tutte le confessioni, mentre l’Amministrazione spirituale dei musulmani dell’Asia Centrale e del Kazakistan (SADUM) era l’organo preposto alla gestione delle attività islamiche in Asia Centrale, affinché queste venissero condotte secondo le direttive del potere comunista.
Dopo l’indipendenza
Nelle costituzioni delle nuove repubbliche indipendenti, i rispettivi leader hanno voluto dimostrare la discontinuità con il passato sovietico garantendo formalmente la separazione tra stato e religione, e la libertà di credo. I cittadini hanno accolto con favore questo cambiamento e progressivamente hanno riabbracciato l’espressione pubblica della loro fede. Nei luoghi pubblici sono sempre più diffuse le Namazkhane, stanze di preghiera e, soprattutto per le nuove generazioni, non è raro indossare l’hijab, digiunare per l’Orozo Ait (la denominazione del Ramadan nella regione) e frequentare ristoranti dove viene servito solo cibo halal.
Non solo: i capi di stato, da esponenti della nomenklatura sovietica, si sono trasformati nottetempo in devoti musulmani puntando sull’islam come collante per ridefinire l’identità nazionale post-sovietica. In stati orfani del comunismo, la strategia per riempire il vuoto ideologico e affrontare la transizione politica è stata infatti quella di incoraggiare un islam locale, che combinasse elementi nazionali con quelli islamici più tradizionali.
Molto presto, però, è divenuto chiaro che l’islam con il suo enorme potenziale di mobilitazione sociale costituiva una vera e propria arma a doppio taglio. Solamente tre mesi dopo la dichiarazione d’indipendenza dell’Uzbekistan, nel dicembre 1991, il presidente Islom Karimov si recò a Namangan per sedare delle rivolte. Lì, fu accolto con derisione da una folla di manifestanti e costretto ad assistere in piedi a un comizio, dove Tohir Yuldash – futuro leader del Movimento Islamico dell’Uzbekistan (IMU) – chiedeva l’istituzione di uno stato islamico con l’applicazione della Sharia.
Allo stesso modo, non troppo lontano nel tempo e nello spazio, la guerra civile tagika che vedeva come principale opponente il partito islamico rivoluzionario, ha ricordato ai governi delle repubbliche neo-indipendenti che la religione, da fonte di legittimazione statale, poteva facilmente rivelarsi un vero e proprio rivale al potere centrale.
Il controllo dello stato sulla religione
Da qui la necessità di porre la religione sotto controllo politico con un approccio progressivamente restrittivo, non lontano dalla logica sovietica di gestione della religione tramite subordinazione allo stato. Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, sono state introdotte revisioni normative che hanno portato a un restringimento della libertà religiosa con l’obiettivo di controllare il rischio di un ‘revival religioso’. Gli stati dell’Asia Centrale hanno così adottato un sistema di leggi che limita le attività dei gruppi religiosi.
Tuttavia, all’interno di questa regione geografica sono presenti diversi gradi di restrizioni: da un estremo ci sono il Kazakistan e il Kirghizistan dove si gode di più ampie libertà, mentre dall’altro si trovano l’Uzbekistan e il Turkmenistan con un clima repressivo più accentuato.
Alcuni elementi accomunano però tutte le legislazioni delle repubbliche: la registrazione obbligatoria dei gruppi religiosi (tramite un iter lungo e complesso), la distribuzione del materiale religioso solo tramite circuiti ufficiali, la limitazione dell’educazione religiosa e della partecipazione dei più piccoli alle funzioni religiose.
Inoltre, gli stessi Consigli per gli affari religiosi e i Comitati spirituali musulmani sono stati introdotti negli stati sovrani con denominazioni e compiti non troppo dissimili da quelli dei corrispettivi sovietici. Il Consiglio per gli affari religiosi si occupa di tutte le confessioni e rappresenta un strumento chiave nella regolazione dell’espressione religiosa con il potere di proporre leggi e anche investigare potenziali infrazioni e attività illegali. Non meno importante, il Comitato spirituale musulmano, una sorta di SADUM moderno, ha diverse funzioni, tra le quali la nomina degli imam, il controllo dei sermoni e dei corsi di formazione islamica.
Nonostante un quadro normativo estremamente più permissivo rispetto all’epoca sovietica e un ricco mosaico di confessioni, la religione viene ancora vista con sospetto dai governi centroasiatici e come oggetto di necessarie restrizioni, tanto da mettere in discussione il principio di separazione tra stato e religione stabilito nelle costituzioni. Inoltre, nel tentativo di monitorare la minaccia islamica estremista presente nella regione – basti considerare gli oltre 5000 centroasiatici arruolati tra le fila dell’ISIS – lo stretto controllo sulla religione comporta anche un uso illegittimo del potere che conduce ad arresti arbitrari e favorisce un crescente clima di intolleranza verso le minoranze religiose.
Immagine: Flickr (Evgeni Zotov)