In tutti i posti in cui ci si può aspettare di trovare Darko Miličić nel pieno dei suoi 35 anni, pochi lo avrebbero immaginato nella quiete del parco nazionale serbo della Fruška Gora, tra i tetti appuntiti dei monasteri ortodossi in cui spesso si rifugia. Anche chi ha vissuto solo perifericamente il basket lo ha sentito nominare e, in particolare negli Stati Uniti, viene ricordato come uno dei grandi fallimenti del Draft NBA. Prima di lui solo Sam Bowie, il centro scelto da Portland al posto di Michael Jordan alla chiamata numero 2, poteva esser considerato un “bust” di questo livello. Miličić però, nel draft di LeBron James e scelto davanti a Dwayne Wade, Chris Bosh e Carmelo Anthony, probabilmente ha lasciato un buco ancora più importante.
La nuova grande stella del basket
“Il mondo intero ha velocemente etichettato Darko Miličić come un totale fallimento dell’NBA, ma ecco dieci ragioni per cui è in realtà un grande successo”. È questo il sottotitolo che firma Sam Borden, senior writer della ESPN che viaggia fino a Novi Sad per intervistare l’ex centro serbo. Sembra quasi incredulo nel vedere come la vita del buon Darko sia ora totalmente diversa, come sia diventata una storia sostanzialmente di successo, sempre in un campo, ma senza parquet e con (letteralmente) la vanga in mano.
Muri di casa sfondati a pugni, allenamenti mattutini in cui si presenta ubriaco fradicio dalla sera prima, zero voglia di faticare, discussioni con i coach, interviste con dichiarazioni quantomeno colorite rivolte agli arbitri. Per finire con l’uscita di scena: inaspettata (per gli americani), improvvisa, categorica. La carriera di Darko Miličić è quella di un disadattato, che il sistema ha provato in tutti i modi a riciclare, dallo status da nuova promessa europea a quello di figliol prodigo da redimere, ma non ci è mai riuscito.
Com’è andata davvero questa storia? Riavvolgiamo un attimo il nastro. Nel 2003 ogni franchigia vuole mettere le mani sulla nuova promessa proveniente dai campionati europei. Il momento sembra perfetto, il Vecchio Continente è ormai totalmente conquistato dall’ideale di basket propugnato da Michael Jordan e soci, ogni giocatore sogna di calcare i parquet americani. L’operazione Dirk Nowitzki poi, che tre anni prima viene chiamato alla numero 9 e diventa subito una sensation a Dallas, ha fatto cambiare idea a molti dirigenti. Che sia per moda, per emulazione, oppure per un effettivo ripensamento della capacità di adattamento degli europei allo stile NBA, tutti cercano un pick che possibilmente parli poco inglese.
Grazie a un articolo di Sam Ford, un giovane autore di ESPN, qualche dirigente viene a conoscenza di un centro serbo che gioca (neanche troppo) all’Hemofarm Vršac. Compirà 18 anni giusto una settimana prima del draft, è alto più di 2 metri e 10 ed è troppo più veloce e agile rispetto a quelli della sua stazza. Tira da fuori, passa bene, parte in palleggio come una guardia. Sembra avere tutti i doni possibili e immaginabili per un giocatore di basket.
Vola a New York in maggio per svolgere un workout. Sono presenti molti scout e dirigenti tra cui Joe Dumars, ex giocatore e in quel momento dirigente dei Detroit Pistons. È lui che ha l’ultima parola sulla scelta al draft. In quell’allenamento Darko stupisce tutti. Domina, senza mezzi termini, in lungo e in largo. C’è chi si chiede se vada scelto prima di LeBron, mentre uno degli scout di Detroit lo paragona addirittura a un giovane Wilt Chamberlain.
Una storia sbagliata per l’NBA
“Il lavoro di scouting fatto su Darko era il 20% di quello che si fa oggi. Guardando indietro, mi rendo conto che non sapevamo la metà delle cose di cui avevamo bisogno”. Così Dumars racconta le falle di quella scelta. Di Miličić si conosceva pochissimo e nessuno si prese la briga di conoscerlo, di indagare su di lui e sulla sua famiglia. Era già destinato a essere la nuova stella, pronta per essere lanciata nello show.
Con un po’ di ricerche, i Pistons avrebbero scoperto che il padre di Darko era un militare. Aveva combattuto durante le guerre balcaniche e un giorno era stato annunciato come morto durante un bombardamento, per errore. Quando torna a casa e nota che il figlio sta diventando altissimo, gli mette una palla da basket in mano e gli insegna i rudimenti. Darko non ama la pallacanestro, solo che gli riesce bene, molto bene, ed è forse l’unico modo che ha per uscire dal paese raso al suolo dai bombardamenti.
Quando viene scelto da Detroit alla numero 2, Miličić è un diciottenne che sa di esser bravo a giocare, ma continua perché probabilmente è l’unica cosa che pensa di saper fare. I giornalisti americani gli chiedono quale sia il suo idolo, ma lui non ha mai avuto interesse a seguire assiduamente la lega. Si ricorda pochi giocatori, così fa il nome di Kevin Garnett, ma non l’ha praticamente mai visto in campo. Anche di questo si verrà a conoscenza solo anni dopo.
Un incubo dalla fine annunciata
I Pistons sono allenati da Larry Brown, rinomato per non amare i rookie (le cosiddette matricole) e pretendere subito un apporto da professionisti navigati. Darko non si sente compreso, è costretto dal coach a giocare sotto canestro come un centro qualunque, quando in Serbia aveva spazio su tutta la metà campo offensiva. Ma soprattutto gli manca quell’interesse vivido che gli può permettere di superare la fase di ambientamento. Il muro contro muro con Brown è totale. Miličić fa di tutto per non farsi rispettare, mentre il coach sfida i limiti del buonsenso quando, durante una partita di regular season, lo costringe a rimanere in campo nonostante un’evidente frattura alla mano.
Nei playoff che vedranno i Pistons vincere il titolo, Darko Miličić segna una media di 0,1 punti a partita. È un oggetto avulso alla squadra. In NBA poi è così: una volta che toppi la tua grande occasione, è difficile che se ne crei un’altra. Non che mancassero squadre disposte a metterlo sotto contratto: Orlando, Memphis, i Knicks (negli ultimi vent’anni, quando si parla di progetti fallimentari ci sono sempre di mezzo i Knicks), Minnesota e infine Boston. Ma a quanto pare nessuno si preoccupa di cosa il ragazzo davvero voglia dalla sua vita. Quando capisce che andrà via da Orlando, Miličić implora il suo manager di non accettare l’offerta di Memphis. Puntualmente, nessuno lo ascolta.
Darko si è veramente impegnato per sbagliare il più possibile, per non avere una voce nella lega. Ma il sistema lo ha in qualche modo triturato. Le squadre lo cercano per spendere poco e puntare su un giocatore da recuperare, l’ennesima storia da copertina da mostrare e vendere al mondo.
Miličić intanto capisce sempre più che non gliene importa nulla dell’NBA e di quel mondo patinato. Così arriva la decisione di smettere, di punto in bianco. Entra nell’ufficio del coach Rivers a Boston e glielo dice chiaramente. Coi Celtics aveva giocato appena una partita, i suoi ultimi cinque minuti negli Stati Uniti.
Il nuovo Darko Miličić
Il giorno dopo è già su un volo diretto verso Belgrado. Della pallacanestro non si parlerà più. In realtà non è propriamente vero, c’è un accenno per un ritorno in campo in Serbia, ma dura un attimo ed evapora subito. Fa un paio di match da kickboxer, ma più per fini pubblicitari che per un vero interesse.
Darko si appassiona, stavolta per davvero, all’agricoltura. Con i soldi che ha guadagnato in America viaggia in Italia, per imparare come si coltivano mele e ciliegie. Quindi, compra una grande tenuta vicino casa e si mette al lavoro. E con grandi risultati, tanto da esportare ora anche in Russia e a Dubai.
C’è spazio per qualche polemica anche in patria, stavolta di stampo politico: ha espresso molta felicità per la riabilitazione di Draža Mihailović, è amico degli ultras più importanti della Stella Rossa, ha sostenuto la rielezione in parlamento di Vojislav Šešelj.
Pare finalmente essere in pace con se stesso; ha tre figli e un lavoro che gli piace. Se proprio ha bisogno di un momento per sé, va sulla Fruška Gora. Per i monaci la sua vecchia carriera, la figura di quel ragazzo europeo problematico e che non ha voglia di diventare ciò che potrebbe, non esiste. Per loro è semplicemente Darko Miličić, di professione agricoltore.
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Foto: Pixabay