Alexej Ivanov

La Russia di Aleksej Ivanov, tra decadenza e soprannaturale

i cinocefali

I cinocefali

di Aleksej Ivanov

traduzione di Anna Zafesova

Voland Edizioni, 2020

pp. 405

Euro 20

 

 

Qui non abbiamo tempo per le favole, porca troia. Qui non c’è niente. Qui non ci inventiamo favole, qui sgobbiamo per voi, moscoviti del cazzo. Vi siete mangiati tutta la Russia, porca puttana.

La prima edizione dell’ottavo romanzo di Aleksej Ivanov, I cinocefali, esce in Russia nel 2011. L’autore è già estremamente noto nel paese, vincitore di numerosi premi, e decide di pubblicarlo sotto lo pseudonimo di Aleksej Mavrin. I critici iniziano subito a esporre le loro congetture su chi possa aver messo a punto uno scritto così particolare, che rifugge ogni genere letterario. Uno di questi, dopo attente analisi e ricerche, sentenzia che l’artefice del libro è una signora sulla sessantina, la quale ha per nipote un discolo dodicenne e non se la cava troppo male col computer.

Nato nel 1969 nell’attuale Nižnij Novgorod, Ivanov sogna fin da bambino di diventare scrittore; la fama lo raggiunge solo dopo i trent’anni, e attualmente ha all’attivo più di venti volumi, da cui sono stati tratti svariati adattamenti per il teatro e il grande schermo. I cinocefali è il primo approdo italiano della penna russa, grazie alla giornalista Anna Zafesova, che ne ha proposto e curato la traduzione, e alla casa editrice Voland. Pervasa di riferimenti letterari, storici e soprattutto cinematografici, l’opera si presenta a prima vista sotto forma di thriller, per poi incorporare continuamente tratti tipici di altri generi all’affilarsi del crescendo di tensione. Una vera e propria “polpetta avvelenata” per l’ignaro lettore, secondo le parole della stessa Zafesova.

Qui sembra di avvertire nell’aria la presenza di invisibili rovine. Non si tratta degli alcolizzati del villaggio, non è la miseria. Qui si respira una testardaggine forsennata, selvaggia, da scismatici: creperemo di cirrosi, ci ubriacheremo e ci faremo a fette con l’ascia, bruceremo nei roghi delle torbiere, ma non cambieremo, non faremo nulla che possa rendere migliore la nostra vita. Qui, le persone camminano su due gambe, portano pantaloni e parlano, eppure continuano a vivere fermi nel tempo, come animali, e forse non è un caso se i loro antenati adoravano un uomo bestia.

Tre giovani moscoviti – Kirill, Denis detto Guger e Valerij – vengono assoldati da una fondazione impegnata in ricerche sulla funzione sociale delle opere d’arte per trarre in salvo un affresco situato in una località remota, nella regione di Nižnij Novgorod. Il trio lascia quindi la capitale “assatanata” per addentrarsi nel villaggio di Kalitino, un luogo che si rivela subito estremamente ostile nei confronti degli stranieri, distante anni luce dallo scintillante cosmopolitismo e progresso di Mosca. In poche facciate, il romanzo assume le tinte fosche di un horror dai risvolti soprannaturali; quell’angolo di provincia russa non solo pullula di soggetti dalla dubbia moralità, ma pare anche sia popolato da oscure creature ultraterrene.

Gli incontri-scontri del protagonista Kirill con i pochi autoctoni si alternano alle dense pagine in cui va alla scoperta dell’area e ne ricostruisce minuziosamente il passato, segnato dall’avvicendarsi di movimenti scismatici e spietate persecuzioni religiose. La modernità del presente sembra oltretutto non aver mai attecchito a Kalitino: un rigetto fisiologico fa sì che i rapporti sociali continuino a essere scanditi da una sorta di legge del taglione, condizione imprescindibile per la sopravvivenza degli abitanti e del posto, nonché caposaldo della loro identità. Per la prima volta la campagna russa non è più un rifugio né tantomeno un luogo di ricongiungimento spirituale; l’unica chiesa del piccolo centro è in rovina, profanata, e la sola traccia di divino al suo interno è un san Cristoforo con la testa di cane.

Qui hanno dimenticato tutto. Qui tutto è morto, tutto coperto dal fumo della torba. Qui ci si alimentava di avanzi, rifiuti e scarti della civiltà, come i piatti usa e getta lavati e riutilizzati. Questo mondo non produceva nulla di suo. Nemmeno le leggende sui cinocefali. Non era paura. Era tristezza. Una malinconia sorda che non lasciava altra scelta se non di trasformarsi in un lupo cannibale e sbranare i passanti incontrati per caso.

I cinocefali è un rompicapo, un cubo magico, di cui ogni capitolo muove una delle facce mutando di conseguenza anche tutte le altre. Ivanov trascina il suo pubblico in una spericolata corsa ad ostacoli, esasperando la decadenza di una realtà ai margini della società civilizzata fino a farla diventare bestiale. Un serratissimo ritmo di colpi di scena mescola senza sosta le carte, i fatti storici con quelli relativi all’intreccio, verità e finzione, razionale e irrazionale. Il meccanismo architettato alla perfezione dallo scrittore russo si scaglia verso un incredibile finale ad effetto, che ribaltando il tutto per l’ennesima volta mette ordine nella vicenda e la chiave di lettura in mano al lettore, dandogli infine accesso alla “zona”.

Cielo grigio, caldo afoso, foschia, ronzio di cavallette: era tutto oltre la ragione, ma anche oltre la stupidità. Al di là del bene e del male. Fuori dal mondo. Non era una riserva, era una zona ad accesso vietato. Come quella che circondava Černobyl’. Solo che invece delle radiazioni qui c’era il degrado. Nella zona di Černobyl’ era vietato entrare per non contaminarsi, qui non si doveva entrare per non ridursi a uno stato animale. Se a Černobyl’ si rischiava di diventare mutanti, qui… qui si rischiava di trasformarsi in licantropi.

foto: Wikipedia

Chi è Giorgia Spadoni

Marchigiana con un debole per le lingue slave, bibliofila e assidua frequentatrice di teatri e cinema. Laureata al Dipartimento di Interpretazione e Traduzione di Forlì, ha vissuto in Russia (Arcangelo), Croazia (Zagabria) e soprattutto Bulgaria. Nel 2018 ha vinto il premio di traduzione "Leonardo Pampuri", indetto dall'Associazione Bulgaria-Italia. Si interessa di cultura est-europea, storia e attualità bulgara.

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