La prima a squarciare il velo di omertà e di paura è stata Marija Lukić, giovane impiegata presso il comune di Brus, piccolo centro nel sud della Serbia: sua è stata la prima denuncia per molestie sessuali – 15 mila SMS e vari “approcci fisici” indesiderati – indirizzata al sindaco della città, Milutin Jeličić Jutka. Era il 2018 e quella denuncia è diventata, proprio pochi giorni fa, una sentenza di condanna, definitiva e immediatamente esecutiva. Una pena tutto sommato lieve – tre mesi di detenzione – viste le accuse a suo carico, ma comunque esemplare e destinata a essere la prima di una lunga serie per questo tipo di crimini.
La pentola scoperchiata su un fenomeno sottovalutato
Questo, perlomeno, è quanto lascia presagire un altro episodio, anch’esso deflagrato in questi giorni: protagonista suo malgrado l’attrice serba Milena Radulović che, nel corso di un’intervista rilasciata il 16 gennaio scorso al quotidiano online Blic, ha accusato Miroslav Aleksić, sessantottenne insegnante di recitazione e produttore teatrale, di averla stuprata. È come se una pentola in ebollizione fosse stata scoperchiata: è stato il gesto che ha incoraggiato almeno altre 10 donne a venire allo scoperto affiancandosi alla denuncia, rafforzandola con la propria, drammatica, testimonianza. Aleksić è stato arrestato dalla polizia e dovrà rispondere, in tribunale, delle proprie azioni.
Come spesso accade in questi casi l’importanza dell’episodio travalica il fatto specifico in sé. A giudicare, infatti, dalla reazione e dal riscontro, anche mediatico, che la denuncia della Radulović ha avuto, si potrebbe pensare che qualche cosa possa davvero cambiare. Un cambiamento concreto, come sperano gli attivisti delle diverse associazioni che, da anni – non solo in Serbia, ma in tutta la regione – si battono per fare emergere una tema che società dai tratti patriarcali e machisti tendono a mantenere sottotraccia o a sottovalutare. O, peggio, a considerarlo un fatto strettamente privato (una valutazione espressa dalla metà delle intervistate in Kosovo e Albania, per esempio).
È in quest’ottica, infatti, che secondo un rapporto OSCE del 2019, deve essere interpretato il dato che indica che in tutti i paesi balcanici la percentuale di donne che denuncia di aver subito abusi sessuali è inferiore rispetto alla media dei paesi dell’Unione europea. A fronte di una media UE del 55%, in Albania, Bosnia, Kosovo, Montenegro e Macedonia del Nord la percentuale si attesta intorno al 30%, mentre in Serbia essa risale al 42%. Un dato, questo, più figlio della “difficoltà di denunciare” che di una reale condizione dei rispettivi paesi, come anche indirettamente testimoniato dal fatto che le percentuali più basse si registrano nelle aree rurali rispetto a quelle urbane e cittadine. In sintonia con questa considerazione l’indagine OSCE pone anche l’accento sul fatto che oltre l’80% delle donne vittima di violenza ad opera del proprio partner ha dichiarato di non essersi messa in contatto con la polizia o con qualsiasi altra organizzazione e la percentuale è ancora più significativa (solo il 2%) se la violenza coinvolge la sfera sessuale vera e propria. Stando ai dati, dunque, si può sicuramente affermare che il problema è ampiamente sottostimato nella sua reale magnitudo.
L’onda montante del “Me too”
È necessario, dunque, intervenire sulla percezione del problema, farlo uscire dalla sfera privata per dargli una connotazione collettiva, infrangere il tabù e con esso il sentimento di stigma e vergogna che spesso attanaglia le vittime di violenza – l’80% delle quali riporta danni psicologici a lungo termine – nel rovesciamento di ruoli tra vittima e carnefice.
Ed è quello che sta accadendo in queste ultime settimane, quantomeno a giudicare dal travolgente riscontro che sta avendo la pagina Facebook “Nisam tražila” – letteralmente “Non l’ho chiesto io” – aperta all’indomani della denuncia di Radulović. Nata per incoraggiare le donne a raccontare la propria esperienza personale, la pagina Facebook – che conta oggi oltre 40 mila iscritti, da tutti i Balcani – si è presto trasformata in uno spazio comune dove, in risposta all’hashtag #NisiSama (“non sei sola”), è possibile rendere esplicita la propria solidarietà e, soprattutto, la propria adesione all’iniziativa: particolarmente significativa quella che è giunta dal mondo universitario, da varie facoltà dell’Università di Zagabria, dalla facoltà di Scienze Politiche di Sarajevo, dalle accademie di Arti Drammatiche di Cetinje (Montenegro) e Belgrado, a dimostrazione di quanto questo movimento sia trasversale anche dal punto di vista geografico.
Ma il merito del coraggioso atto di Radulović e del movimento che, spontaneamente, si è sviluppato subito dopo va oltre: da una parte, infatti, ha consentito di dare visibilità a una serie di associazioni di volontariato che già operano sul territorio in sostegno delle donne molestate e di cui c’era poca conoscenza – il già citato rapporto OSCE stimava come un terzo delle donne balcaniche non fosse informata dell’esistenza di alcuna organizzazione di supporto, una percentuale che va oltre al 60% nella Macedonia del Nord. D’altra parte, ha permesso di porre l’accento sulla necessità di intervenire anche in campo legislativo per correggere alcuni evidenti vulnus, come quelli che “consentono” alla Serbia di avere ancora una legge che viola la convenzione adottata dal Consiglio d’Europa nel 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne (Convenzione di Istanbul) – benché le molestie sessuali siano state riconosciute come reato penale nel 2017.
Una situazione analoga a quella della Bosnia: un primo segnale in questa direzione arriva dal Cantone di Sarajevo che su proposta del ministero della Giustizia ha deciso la nomina di un gruppo di esperti per la preparazione di un protocollo sul trattamento delle molestie sessuali e delle violenze negli enti governativi e nelle aziende pubbliche. Insomma, qualcosa sembra muoversi anche in quella direzione.
L’onda montante del “Me too” balcanico è all’inizio, ma già da ora si può essere certi che nulla, poi, sarà come prima.
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