Domenica 22 novembre 2020 in Italia si è accesa una breve ma vivace polemica, originata da un tweet di Alessandro Laterza, in cui apparentemente il noto editore disconosceva il valore delle voci femminili nella letteratura italiana contemporanea. La vicenda può fungere qui da spunto per riflettere sul fenomeno della scrittura della migrazione in Italia, che a partire dai primi anni Duemila ha contaminato positivamente la letteratura, creando i presupposti per la nascita di un nuovo modo di intendere la narrazione e, di conseguenza, ampliando il canone degli autori di riferimento.
All’interno di questo momento di evoluzione, un ruolo di primo piano è stato interpretato da tre scrittrici provenienti dalla cultura albanese, dotate di una straordinaria forza narrativa e di un proprio immaginario riconoscibile, sempre coerente e originale.
Elvira Dones, Ornela Vorpsi e Anilda Ibrahimi
Con i romanzi di Elvira Dones, Ornela Vorpsi e Anilda Ibrahimi, in un giro di anni compreso tra il 1997 e il 2017, un particolare tipo di testimonianza ha assunto forme sempre più definite. Si tratta di un sottogenere straordinariamente vitale, specie se lo si considera nella sua interezza, oggi ancora in via di sviluppo e già proiettato in direzione di uno scenario futuro grazie alle cosiddette seconde generazioni (Elvis Malaj ad esempio).
Tra le opere più significative sono da ricordare Vergine giurata e Piccola guerra perfetta (Dones, 2007 e 2011), brucianti documenti delle ferite della separazione, della perdita di un equilibrio; o ancora, i frammenti di Vorpsi contenuti in Bevete cacao van Houten (2005 e 2010), in cui i protagonisti affrontano e metabolizzano l’incontro con l’occidente, assieme a Il paese dove non si muore mai (2005); e, infine, la quadrilogia di romanzi di Anilda Ibrahimi, narratrice vera, autrice di figure femminili appassionanti, capaci di rievocare un mondo ricchissimo di riti e di tradizioni (Rosso come una sposa 2008, L’amore e gli stracci del tempo 2009, Non c’è dolcezza 2012 e Il tuo nome è una promessa 2017).
Sotto l’etichetta della migrazione italofona di area balcanica sono state raccolte numerose produzioni letterarie, autentiche e dolorose, che provenivano da un sistema in via di dissoluzione. I conflitti etnici che hanno attraversato queste terre sul finire del secolo scorso, assieme alle depressioni post-capitaliste successive, hanno liberato voci che erano spinte dall’urgenza di raccontare, nel tentativo di ricostruire per sé e per le generazioni future una nuova e più complessa identità. La ricerca di una diversa collocazione nel mondo ha così fuso istanze lontane e connesso ideologie e punti di vista anche opposti, dando vita a soluzioni linguistiche e figurali ibride.
Lo strano caso della letteratura italofona albanese
Iscritta in tali coordinate, la vicenda albanese costituisce un’anomalia interessante. Forse, assieme alla proliferazione di testi francofoni di origine maghrebina degli ultimi decenni, è il caso più evidente in cui una lingua acquisita viene scelta da una vasta comunità di scrittori per dare spazio alle proprie esigenze espressive.
Il canone della letteratura italofona albanese conta oggi decine di nomi (Levani, Kubati, Spanjolli, solo per citarne alcuni tra i più prolifici) e una bibliografia critica piuttosto estesa. Dones, Vorpsi e Ibrahimi ne costituiscono il momento iniziale. Da narratrici, e da intellettuali, hanno preso la parola dopo il crollo del regime di Enver Hoxha e hanno costruito da allora, di storia in storia, un universo narrativo molteplice, sempre più lontano dai postumi di quel trauma collettivo e, al contrario, progressivamente inserito in una attualità globalizzata.
Il caso albanese fa dunque storia a sé e ribalta le proporzioni di una visione ancora legata a un canone maschiocentrico. In quel preciso momento storico, e in una particolare area geografica, in seguito a una diaspora che rimarrà epocale, sono state soprattutto le autrici, e non gli autori, ad aver aperto per prime una strada e ad aver definito un ideale di letteratura, affrancandosi tra l’altro da un modello tanto elevato quanto ingombrante come quello rappresentato dall’opera di Ismail Kadaré, rimasto immerso per evidenti motivi generazionali in un altro clima rispetto a quello dei nostri tempi.
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