Che dire? Lo stato d’emergenza, proroga dopo proroga, l’adozione di misure restrittive a tempo indeterminato, i poteri straordinari del primo ministro, il regime d’eccezione. Una matassa difficile da estricare, benché un anno sia passato.
Confinamento di massa
La cifra di quest’anno è stato il confinamento, possiamo partire da lì. Un confinamento che non ha prodotto, come i più temevano all’inizio, un individualismo spinto all’eccesso ma, al contrario, ha rinforzato l’essere massa. Una massa poco densa, rarefatta, distanziata, ma comunque compatta. E passiva. Il filosofo Giorgio Agamben la definisce una massa rovesciata e, citando Canetti in Massa e Potere, riflette sul concetto di divieto. Il divieto che la massa accetta ma che mai i singoli – prima di fondersi in essa – avrebbero accettato. Il divieto di uscire, di spostarsi, di toccarsi, di seppellire i morti, di stringere una mano. Un divieto che certamente serve alla salute (e anche a nascondere le inefficienze del sistema sanitario) ma che ha portato a livelli di passività e conformismo tangibili, evidenti, inquietanti.
Regime d’eccezione
Su questo passivo conformismo giace il regime d’eccezione. Alcuni governi hanno fatto un uso strumentale della crisi sanitaria per consolidare il proprio potere erodendo ulteriormente le libertà civili. E il nostro? In Italia abbiamo avuto una gestione prevalentemente governativa dello stato di emergenza, con una marginalizzazione del ruolo del Parlamento. Qualcuno dirà che del Parlamento non si sente la mancanza. Ed è vero, a suo modo. Nel senso che da tempo il ruolo del Parlamento, in Italia, è ancillare ed evanescente. Ma è un fatto ben triste, in ogni caso. Come è triste, se non amaro, che lo stato di emergenza sanitaria sia stato deliberato dal solo primo ministro senza il coinvolgimento del Parlamento nonostante siano state derogate libertà fondamentali.
Inutile poi dire che “emergenza” indica una circostanza imprevista e che, dopo un anno, la pandemia non sia certo più allo stato dell’improvviso insorgere e che sarebbe ormai tempo di ricondurre tale emergenza entro il modello dello stato di diritto, basato sul principio di legalità, della separazione e dell’equilibrio dei poteri, evitando derive arbitrarie se non autoritarie. Perché il rischio che corriamo è quello. Di scivolare, passivamente coesi, in una versione limitata della democrazia. Di non trovare più, alla fine della pandemia, la democrazia come l’avevamo lasciata. Che, insomma, questa non sia solo una parentesi.
Disuguaglianze e istruzione
A farlo temere è anche il trattamento riservato all’istruzione che, tra chiusure e didattica a distanza, allarga le disuguaglianze che la scuola dovrebbe invece ridurre con effetti economici e sociali che si vedranno solo fra una o due decadi. E una società diseguale non può essere pienamente democratica. Per non dire delle università, motore di progresso umano e sociale, che soggette alla dittatura telematica perdono il senso stesso del loro esistere: essere comunità, come il nome indica, e colonna vertebrale delle libertà civili.
Paternalismo e sicurezza
In tale contesto, infine, qualcosa si può ancora dire sui media i quali da un lato hanno subito il paternalismo dell’esecutivo, fatto a colpi di messaggi rassicuranti calati dall’alto a reti (quasi) unificate, mentre dall’altro si sono conformati volentieri a un ruolo gregario e subalterno.
Ai giornalisti, però, è stato impedito l’accesso alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni. Accesso fino a ieri garantito da un decreto legislativo, il 97/2016, che introduceva anche in Italia la cosiddetta normativa FOIA (Freedom of Information Act). Insomma, per poco chiare ragioni di “sicurezza” è vietato sapere cosa fanno le istituzioni. Segreto. Mentre non è un segreto che stiamo vivendo una fase – oserei dire un’epoca – in cui lo spazio della verità si contrae.
Mistificazioni, falsificazioni, adattamenti della verità vengono prodotte e riprodotte dal linguaggio mediatico e politico. Il concetto di fake news si estende fino ad inglobare le opinioni scomode, facendosi così pervasivo da richiedere, in alcuni paesi, persino un ministero della verità che in Italia ha assunto le forme di una commissione parlamentare d’inchiesta, istituita nel luglio 2020 con il compito di vigilare sulla circolazione di “notizie false su internet” specialmente, inutile dirlo, in merito alla pandemia.
Scienza o dogmatica
Quando le parole ingannano, non resta che aggrapparsi ai numeri, alla scienza, alla verità dura. La scienza è ormai la religione del nostro tempo e, come ogni religione, corre il rischio della dogmatica. Accettare che la scienza è dubbio sembra oggi difficile persino per gli stessi scienziati. Ma dalla dogmatica deriva l’assolutismo, dalle misure di contenimento deriva il regime d’eccezione in cui ci troviamo a vivere. Non già perché tali misure siano inappropriate, ma perché la politica ha abdicato alla scienza nel prendere decisioni. E la scienza sbaglia, se è scienza. Se non sbaglia, è fede. La pandemia ha forse palesato questo sentimento, questa fede nella scienza, ma ha anche mostrato l’ingenuità di credere la scienza monolitica e perfetta, e non in costante ricerca. Da qui i rigurgiti anti-scientifici dei no-mask, no-vax, e altri oppositori dell’incertezza. Entrambi gli atteggiamenti, di fede e di rifiuto verso la scienza, ci dicono qualcosa dell’epoca, del bisogno di assoluto, anche forse d’un capo assoluto, cui affidarsi ciecamente illudendoci così di porre fine all’incertezza. D’altronde il paternalismo funziona solo se ci sono bambini.
Che dire, mi chiedevo all’inizio. Qualcosa, benché insufficiente, ho provato a dire. Ma non è una liberazione. La liberazione passa da un altro interrogativo. Che fare?
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