Nato a seguito delle elezioni parlamentari del 30 agosto scorso, che avevano sancito la storica sconfitta del Partito Democratico dei Socialisti (DPS) di Milo Đukanović, attuale presidente della Repubblica, il nuovo esecutivo del Montenegro, guidato da Zdravko Krivokapić e fondato su un’alleanza tra una lista filo-serba e forze civiche ed europeiste, sta già affrontando importanti sfide.
Oltre alle difficoltà nella gestione della pandemia, la cui curva è tornata a salire, e del piano vaccinale che partirà solo dal prossimo aprile, il governo deve fare i conti con una difficile situazione economica e con lo scontro istituzionale in corso con lo stesso Đukanović.
La situazione economica
Secondo le ultime previsioni pubblicate lo scorso novembre dalla Commissione Europea, il Montenegro registrerà per il 2020 un calo del PIL del 14,3%, di gran lunga maggiore rispetto al 5,9% pronosticato in primavera. I problemi principali derivano dal netto calo delle esportazioni (-29,2%) e del turismo (-80% degli arrivi) che da solo equivale a circa 1/5 di tutta l’economia montenegrina. Il crollo del settore turistico per esempio, ha inciso notevolmente sulla decisione dell’esecutivo di chiudere la compagnia aerea di bandiera Montenegro Airlines, che verrà sostituita da una nuova compagnia sempre di proprietà statale. Complessivamente il tasso di disoccupazione è salito dal 15,3% del 2019 al 18,1% del 2020 mentre per l’anno in corso è previsto un calo fino al 16,6%.
A questi dati si aggiunge l’elevato debito pubblico (87,3% del PIL). Il 10 dicembre, appena una settimana dopo il suo insediamento, il governo ha deciso di erogare un Eurobond da 750 milioni di euro, una misura che secondo il ministro delle Finanze Milojko Spajić “ha salvato il paese dalla bancarotta”.
Lo scontro istituzionale
L’altro grande problema per Krivokapić e i suoi alleati è lo scontro frontale con il presidente della Repubblica Milo Đukanović. Due episodi hanno contribuito ad alzare la tensione istituzionale con le dure accuse rivolte dal governo al presidente sul non rispetto delle prerogative costituzionali. Il primo episodio ha riguardato la mancata firma alla riforma della contestatissima legge sulle proprietà religiose. Tra i motivi principali della sconfitta di Đukanović, la riforma era stata considerata una priorità assoluta del nuovo governo anche se le modifiche erano state accolte da proteste di piazza organizzate dai sostenitori del presidente. La mancata firma costringe ora il parlamento ad una seconda votazione, al cui esito questa volta Đukanović non può opporsi, prevista per il prossimo 20 gennaio.
L’altro episodio si inserisce in una più ampia lotta per cambiare, dopo tre decenni, gli equilibri politici degli apparati dello Stato. A metà dicembre il ministro degli Esteri Đorđe Radulović aveva deciso di richiamare e sostituire ben sette ambasciatori. Il vero peso politico di tale scelta riguarda i paesi coinvolti. I sette sono infatti ambasciatori in Cina, Serbia, Emirati Arabi Uniti, Vaticano, Italia, Bosnia-Erzegovina e Germania. Un evidente tentativo di ricalibrare la politica estera del paese partendo dalle relazioni con alcuni dei più importanti partner. Cosciente di ciò, anche in questo caso Đukanović ha rifiutato di porre la sua firma al decreto che autorizza la sostituzione degli ambasciatori contribuendo ad ampliare ulteriormente le distanze con il governo che lo accusa di non voler favorire una transizione pacifica del potere. In un tweet, il vice premier Dritan Abazović aveva addirittura fatto riferimento ad una possibile rimozione di Đukanović. Sulla scia dello scontro per il controllo dello Stato, il presidente del parlamento Aleksa Bečić, in qualità di membro del Consiglio per la difesa e la sicurezza, ha firmato il licenziamento del capo di stato maggiore dell’esercito. Un altro tentativo di tagliare la rete di potere costruita da Đukanović in trent’anni di governo.
Come se non bastasse, all’orizzonte si prospetta un’altra questione che sarà sicuramente al centro di un aspro scontro politico: quest’anno infatti dovrebbe svolgersi un nuovo censimento. Un momento in cui le spinte nazionaliste si faranno ancora più forti, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la forte comunità serba presente nel paese.
Il rapporto con UE e Russia
Nonostante quasi tutti si aspettassero un repentino cambio di rotta nella politica estera del paese, il governo, trainato da forze filo-serbe e vicine alla Russia, ha finora confermato la linea adottata dai suoi predecessori. Lo stesso primo ministro ha rassicurato sulla volontà di continuare nel processo di adesione all’Unione Europea dicendosi certo che “il Montenegro sarà il prossimo membro dell’Unione”. Il via libera alle negoziazioni per l’adesione è arrivato nel lontano 2012 ma ad oggi sono solo tre (su un totale di 33) i capitoli negoziali chiusi. Nel 1999, inoltre, il paese ha deciso per l’adozione unilaterale dell’Euro come moneta ufficiale.
La volontà di non compromettere il processo di adesione è stata confermata anche dalla decisione di mantenere le sanzioni economiche verso la Russia così come richiesto dalle istituzioni europee. La scelta non ha provocato particolari reazioni a Mosca, cosciente che gli equilibri geopolitici nel paese e nella regione passano per altre questioni.
I prossimi mesi saranno decisivi per la tenuta del governo e non è da escludere che l’indomito Đukanović riesca persino a provocarne la caduta. Quello che è certo è che in Montenegro ha già preso il via la lotta per l’eredità dell’enorme potere accumulato dal presidente in questi decenni.
Foto: Parlamento del Montenegro