Tra i numerosi saggi dedicati al tormentato rapporto tra ebrei e Polonia, “Poland and the Jews. A reflection of a Polish Polish Jew” (Edizioni Austeria, Krakow, 2005) di Stanisław Krajewski è senza dubbio un testo fondamentale. Senza alcuna reticenza Krajewski, docente di filosofia all’Università di Varsavia, passa in esame questioni ancora divisive: lo strisciante antisemitismo nella società polacca contemporanea, le controversie attorno al museo di Auschwitz, l’elevata presenza di ebrei nel regime comunista, il ruolo della Chiesa cattolica nel delineare la frattura ed un possibile re-incontro tra polacchi ed ebrei. Lo stile asciutto, quasi chirurgico, ripercorre le tematica dalla peculiare prospettiva di un “polish polish Jew”, un ebreo polacco che vive nella Polonia contemporanea.
Un’identità marginale: il percorso di un “polacco ebreo polacco”
Nato nel 1950 in una famiglia ebraica assimilata, figlio di esponenti di spicco del partito comunista, Stanisław Krajewski è cresciuto come qualsiasi altro ragazzo polacco del periodo: “Inizialmente, la mia identità ebraica era inesistente. Per i miei genitori, era una questione del passato e che sarebbe diventata irrilevante nel nuovo mondo comunista, di giustizia e uguaglianza” (p. 19). Come per altri connazionali di origine ebraica, la realizzazione della propria alterità passa attraverso l’esperienza dolorosa e personale dell’odio anti-ebraico: “La campagna del 1968 mi ha reso evidente che l’ebraismo, al contrario, contava. Ho percepito la forza e l’apparente inevitabilità del destino degli ebrei, anche se non avevo ancora pressoché alcuna conoscenza dell’ebraismo” (p. 21).
Grazie a contatti con ebrei all’estero e l’incontro con coetanei di origine ebraica interessati a conoscere meglio le proprie origini, Krajewski inizia un difficile percorso di ricerca che lo porta, gradualmente, a diventare un ebreo praticante. Il proprio percorso di “de-assimilazione“, però, non lo spinge mai ad estraniarsi dalla cultura polacca o scegliere di fare aliyah (emigrazione in Israele).
La propria appartenenza è anche doppiamente marginale: se in Polonia la comunità ebraica oggi non arriva a 10.000 membri, è altrettanto vero che attualmente la stragrande maggioranza degli ebrei di origine polacca vive tra Stati Uniti ed Israele. Se è nel retroterra culturale ashkenazita di New York che sopravvivono la lingua e il teatro yiddish, bisogna però precisare che gli ebrei di origine polacca conservano un legame inesistente – quando non apertamente conflittuale – con la Polonia contemporanea.
Del resto Stanisław Krajewski, per molti aspetti, appare più vicino a un connazionale cristiano che agli ebrei polacchi residenti in Israele o USA: post-sionista, profondo conoscitore della letteratura polacca e persino ammiratore di papa Giovanni Paolo II. Per queste ragioni “Poland and the Jews. A reflection of a Polish Polish Jew” è, prima di tutto, il punto di vista di una voce fuori dagli schemi, di un ebreo dall’identità complessa e sfuggente, sempre ri-negoziabile.
Attese messianiche
Tra gli aspetti affrontati in questo libro, uno dei più interessanti è la ricerca di un senso, di un punto da cui partire per ricostruire il rapporto tra la Repubblica di Polonia e la minoranza ebraica.
Una delle analisi più lucide è incentrata sul tema del “popolo eletto“. Rivolgendosi ad un pubblico ebraico, Krajewski osserva come anche la nazione polacca abbia a lungo percepito sé stessa come un popolo perseguitato che si muove nella Storia in attesa della redenzione messianica e il proprio riscatto nazionale. Nella poetica di Adam Mickiewicz, la Polonia, smembrata tra popoli stranieri, soffre “come un Cristo tra le nazioni” lottando per l’indipendenza politica.
La ragione del fraintendimento di polacchi ed ebrei sul senso della Memoria va ricercata, per Krajewski, nelle esasperazioni di questo sentimento vittimistico ancora presente nel retroterra culturale nazionale, che impedisce ai polacchi di comprendere la specificità dell’odio antisemita e il collaborazionismo con il regime nazista.
Sempre nella poesia romantica dell’Ottocento, però, si trovano tracce di una relazione antica e complessa. In Pan Tadeusz, opera principale di Adam Mickiewicz, l’ebreo Jankiel è ricordato con affetto dal poeta, che ne elogia il patriottismo definendolo “fratello maggiore“. È al topos letterario di Jankiel che avrebbe fatto riferimento Karol Wojtyła, durante la visita alla sinagoga di Roma nel 1986, quando definì gli ebrei “fratelli maggiori” dei cattolici. Un rapporto altalenante, in cui le dinamiche conflittuali hanno messo troppo a lungo in ombra le storie di convivenza e mutuo rispetto.
Ebrei e comunismo
Figlio di membri del partito comunista, Krajewski si confronta a lungo con le responsabilità del regime. Uno degli stereotipi più radicati nella società polacca associa ebraismo a comunismo, attribuendo agli ebrei un ruolo nell’instaurazione della dittatura sovietica. È vero che la maggior parte dei dirigenti del partito comunista, sia in URSS che in Polonia, aveva origini ebraiche, come del resto erano ebrei Karl Marx, Rosa Luxemburg e Lev Trockij. Tuttavia, la sproporzionata partecipazione degli ebrei al regime sovietico non ha portato alcun vantaggio alla comunità, vittima al pari degli altri della dittatura. Al contrario, la presenza di un numero elevato di dirigenti ebrei ha aperto la strada alla campagna antisemita del 1968, con la quale i vertici miravano ad eliminare i propri rivali usando come pretesto proprio le loro origini ebraiche.
Forse è l’enfasi dell’ebraismo sulla giustizia sociale a spiegare il fenomeno degli ebrei comunisti? Per Krajewski, è necessario ribaltare la prospettiva. Esclusi dalla vita politica, a lungo interdetti dal possedere proprietà terriera, ostacolati nell’accesso a numerose professioni, gli ebrei hanno per secoli vissuto in condizioni di povertà ed estrema marginalizzazione sociale. Ed è proprio questo che potrebbe aver spinto numerosi ebrei, inclusi gli intellettuali, ad abbracciare gli ideali della Rivoluzione.