la vigilia di natale a Kabul

Natale 1979: Quando l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan

La vigilia di Natale a Kabul è un evento speciale. Ogni inverno, da 41 anni a questa parte, la giornata viene ricordata come l’incipit di uno dei capitoli più bui della storia afghana. Fu infatti in quell’occasione che l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ordinò al suo esercito di invadere il paese asiatico, dove sarebbe rimasto per quasi un decennio. Contrariamente alle aspettative, tale atto di veemenza si rivelò ben presto essere un’inane tragedia (raccontata anche dalla scrittrice premio Nobel Svetlana Aleksievič nel suo Ragazzi di zinco), uno sventurato “Vietnam russo”, a suo modo preludio della definitiva caduta dell’URSS.

L’antefatto

Prima che l’armata rossa fece incursione, la stabilità della vita politica afghana era garantita da un’armoniosa convivenza tra società civile e religione. Tuttavia, dal 1964 al 1978, tale equilibro fu rotto da una seria di colpi di stato che destrutturarono profondamente il tessuto sociale del paese. Il terzo di questi, noto con il nome di Rivoluzione di Saur, vide l’assassinio dell’allora presidente in carica Mohammed Daoud Khan e l’ascesa al potere del Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), d’ispirazione sovietica. Con esso nacque la Repubblica Democratica d’Afghanistan: una nuova forma di governo socialista presieduta da Nur Mohammad Taraki, un uomo la cui politica di stampo marxista fu poco gradita alle autorità religiose.

Presi i poteri, il nuovo PDPA avviò un’importante campagna di secolarizzazione della società, mettendo fin da subito in atto un programma di riforme socialiste. All’interno di questo erano previste una politica agraria e significative innovazioni di matrice laica, tra le quali il riconoscimento del diritto di voto alle donne e il divieto dell’uso del burqa afgano. Tutto ciò si tradusse in un sentimento di generale malcontento da parte delle gerarchie ecclesiastiche, le quali non esitarono a organizzare un’opposizione armata contro il regime di Taraki. Il nuovo anno si aprì con ripetuti conflitti tra l’esercito e la resistenza dei mujaheddin – i cosiddetti “combattenti per la fede” – organizzata dagli islamisti afghani e supportata da Islamabad e Teheran.

Taraki venne destituito nel settembre dell’anno seguente con un golpe ordito dal suo rivale e primo ministro, Hafizullah Amin, il quale diede inizio a uno dei regimi più sanguinari nella storia del paese. Durante i primi mesi della sua presidenza, furono infatti eliminati quasi 10 mila oppositori politici, tra i quali numerosi esponenti di spicco della classe media borghese.

Mosca, l’invasone della vigilia di Natale

Le vicende interne afgane, così come i rapidi cambiamenti in corso nella regione – da un lato l’Iran, che in seguito a sconvolgimenti sociopolitici interni, si era da poco trasformato da monarchia a repubblica islamica sciita; dall’altro lato il Pakistan di Zia ul-Haq, filoamericano e intento ad abbracciare un processo di crescente islamizzazione – erano guardate con molta apprensione da Mosca. L’allora presidente del Comitato per la Sicurezza dello Stato (KGB) e i vertici militari iniziarono così a comprendere che un regime sanguinario come quello di Amin non poteva beneficiare del supporto sovietico.

A questo si aggiunsero i tentativi di modernizzare il paese adottati dal PDPA, i quali non fecero altro che approfondire le disuguaglianze fra la capitale e le aree rurali circostanti, alimentando ulteriormente i duri conflitti intestini in corso. Con l’approssimarsi della fine dell’anno la situazione degenerò e per non perdere il controllo del paese, la sera del 24 dicembre 1979, il Cremlino decise di intervenire direttamente nel conflitto. Ebbe così avvio l’Operazione Štorm 333, la quale segnerà l’inizio di una guerra decennale. Amin venne ucciso e giustiziato insieme alla sua famiglia e ai suoi ufficiali.

Conquistata Kabul, i sovietici posero Babrak Karmal a capo dello stato. Successivamente, nel 1986, egli verrà sostituto da Mohammad Najbullah, più vicino alle posizioni russe. L’azione di Mosca venne ampiamente criticata da molti paesi arabi ed europei, Stati Uniti in primis, i quali decisero infine di boicottare le olimpiadi russe del 1980 come gesto simbolico. Allo stesso tempo, tuttavia, essi erano consapevoli che da quel momento in poi l’opposizione islamica avrebbe avuto piede libero nel paese.

La sconfitta e il ritiro

Con l’intervento sovietico in Afghanistan iniziò una nuova fase del conflitto civile. Da un lato, il Cremlino auspicava che il regime mettesse sotto scacco i ribelli islamisti, i quali, a loro volta, erano sostenuti dagli Stati Uniti e dai paesi arabi del Golfo. Fu proprio per merito dell’aiuto delle forze internazionali che i gruppi di mujaheddin riuscirono di fatto a contrastare ogni tipo di offensiva da parte di Mosca. Alle difficoltà sul campo, quest’ultima dovette inoltre fare i conti con l’instabilità domestica di quel periodo: la fine dell’era Breznev, unitamente all’avvento del riformismo rampante di Michail Gorbačëv, furono infatti tra le principali cause del crollo dell’Urss.

Per quest’ultima, che contò circa 15 mila caduti, giungeva così al termine l’ultima prova di forza della sua storia. Per l’Afghanistan, invece, il cui bilancio ammontò a quasi due milioni di morti e a oltre 5 milioni di profughi, iniziava un periodo di profonda instabilità politica e di nuovi drammi. La decisione di Mosca di disimpiegarsi dal conflitto a partire dal 1987 non lasciò infatti alcuna prospettiva di crescita per il paese asiatico, creando le premesse per l’ascesa dei talebani nel 1996, i quali colmarono il vuoto politico che le truppe sovietiche avevano creato. A distanza di tre decenni, l’Afghanistan reca ancora su di sé i segni di una tragedia fra le più crudeli della seconda metà del XX Secolo.

 

Immagine: Global Village Space

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