Il 10 e l’11 dicembre i capi di stato e di governo europei sono a Bruxelles per partecipare alla nuova riunione del Consiglio europeo. Una due-giorni decisiva per l’iter di approvazione del bilancio settennale dell’UE, inclusivo anche dell’iniziativa NextGenerationEU, più nota come Piano per la Ripresa o Recovery Plan. Potrebbe essere finalmente approvato, quindi, un pacchetto di misure di stimolo da più di 1.800 miliardi di euro: il più ingente mai finanziato dall’Unione.
“Potrebbe”. Il condizionale è d’obbligo, perché, nonostante il continente sia alle prese con la peggiore emergenza economico-sanitaria dal secondo dopoguerra, i 27 paesi membri dell’UE tornano a dividersi proprio su quel tema che dovrebbe costituire uno tra gli elementi fondativi dell’Unione stessa: lo stato di diritto. Infatti, seguendo quello che è ormai il medesimo copione da una decina di anni, i due paesi più reazionari del Gruppo di Visegrád, l’Ungheria e la Polonia – con l’inedito sostegno politico della Slovenia – avevano annunciato nelle scorse settimane l’intenzione di ricorrere al veto in sede di approvazione del budget.
Il motivo dello scontro
La ragione? Una clausola sul rispetto dei diritti umani. Una condizionalità introdotta quest’anno – fortemente voluta dal Parlamento europeo e dalla Commissione – che vincola la ricezione dei fondi europei di uno stato membro al suo rispetto dello stato di diritto. Questo meccanismo è stato pensato non solo per rafforzare gli strumenti già a disposizione per la tutela dei valori fondamentali dei Trattati, ma anche per proteggere gli interessi finanziari dell’UE. Infatti, in assenza di tribunali indipendenti, non ci sarebbe più la garanzia di una sufficiente prevenzione rispetto all’uso improprio dei fondi UE destinati a uno stato.
E non è tutto. Il nuovo sistema del Recovery Fund vuole anche proteggere i beneficiari finali che dipendono dai fondi europei, come studenti, agricoltori o organizzazioni non governative, i quali potranno presentare alla Commissione un reclamo per ricevere gli importi dovuti.
Questa condizionalità, come prevedibile, non è stata digerita bene dai due primi ministri Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki, in quanto i loro paesi – Ungheria e Polonia – sarebbero proprio quelli più a rischio. Loro malgrado, infatti, per poter accedere al corposo pacchetto di aiuti sarebbero costretti a imprimere alle rispettive politiche nazionali una radicale inversione di marcia rispetto alla direzione intrapresa nell’ultimo decennio.
Si tratta quindi di uno stallo che sta mettendo a dura prova le capacità di mediazione messe in campo dalla Germania, paese che si trova a presiedere questo semestre di lavori del Consiglio UE. Solo all’Italia dovrebbero arrivare ben 209 miliardi di euro dal Recovery Fund, ma in termini relativi i paesi le cui economie dipendono maggiormente dai fondi europei sono proprio Polonia e Ungheria. È difficile pensare che non si riesca a trovare un compromesso last minute che eviti il disastro di un bilancio in esercizio provvisorio. Eppure un compromesso sembra sia stato raggiunto proprio nella notte tra il 9 e il 10 dicembre: una sospensione temporanea della condizionalità oggetto della discordia. Questa soluzione sembra accontentare tutti. Infatti, se da Budapest e Varsavia arrivano proclami e annunci di vittoria, da parte dei promotori del nuovo sistema di regole rimane la soddisfazione di vedere il testo non modificato.
Perché nessuno può “perdere”
Sul piano della politica interna, Ungheria, Polonia e Slovenia si trovano in notevole difficoltà. Uno studio commissionato dal Parlamento europeo nel mese di novembre ha rilevato che il 44% degli ungheresi ha sofferto una riduzione del reddito dall’inizio della crisi. È il dato più alto in Europa, nettamente superiore alla media del 27% dei cittadini dei paesi membri intervistati. Tuttavia, nonostante la pessima situazione economica, il governo ungherese sembra potersi permettere di donare 10 milioni di dollari a una fondazione americana per la commemorazione delle vittime del comunismo.
Allo stesso tempo, in Polonia il partito nazional-conservatore di governo, Diritto e Giustizia (PiS), è in caduta libera nei sondaggi: l’abolizione di fatto del diritto all’aborto ha provocato manifestazioni di massa in tutto il paese e ricompattato le opposizioni. Se le elezioni presidenziali di quest’estate si tenessero oggi, Andrzej Duda non avrebbe alcuna possibilità di essere rieletto.
La situazione politica in Slovenia non sembra affatto migliore. Il premier Janez Janša guida un governo retto da una coalizione sempre più in bilico. La sua lettera di sostegno politico alle posizioni magiaro-polacche pone il paese su una linea di rottura con la tradizione europeista della politica estera slovena. Una linea che non è affatto condivisa da partiti fondamentali per la tenuta del governo. Inoltre, anche sul piano della gestione dell’emergenza sanitaria, spicca l’inefficacia delle misure adottate per tenere a bada un contagio che è fuori controllo già dalla fine dell’estate.
Dall’altra parte c’è un intero continente con un’economia di fatto congelata dalla seconda ondata epidemica, che aspetta, con impazienza, di poter ricevere una boccata d’ossigeno grazie al corposo piano di stimolo economico messo in campo dalle istituzioni comunitarie.
Foto: Reuters