Ad oltre vent’anni dalla fine del conflitto in Kosovo, la terra continua a restituire i corpi delle vittime in uno stillicidio di orrore e sofferenza che sembra non aver fine. Non potrebbe che essere così, d’altronde, visto che sono ancora tantissime le persone – oltre 1600 secondo le stime ufficiali, perlopiù di etnia albanese – di cui si sono perse le tracce, sparite nel nulla, a sommarsi con ogni probabilità agli almeno diecimila morti ammazzati già contati.
Una nuova fossa comune in Serbia
È di questi giorni l’ufficialità del ritrovamento di una nuova fossa comune in Serbia, nella miniera a cielo aperto di Kizevak, nei pressi della città di Raška. Siamo nel sud del paese, a una decina di chilometri dal confine con il Kosovo, confine da cui la cava è collegata attraverso una strada che si snoda tra i boschi. Si tratta di un’area montuosa che già in passato è stata oggetto di ritrovamenti simili, come quelli del sito minerario di Rudnica, dove nel 2013 furono riesumati 53 corpi. Proprio sulla valutazione di quante vittime siano effettivamente sepolte a Kizevak c’è ancora incertezza, sebbene secondo quanto dichiarato da Veljko Odalović, capo della Commissione serba per le persone scomparse, dovrebbero essere almeno una quindicina, forse di più.
Saranno però solo gli scavi iniziati il 30 novembre scorso a dare la risposta definitiva: vi prenderanno parte anche alcuni rappresentanti del Kosovo, oltre che il personale della missione EULEX (European Union Rule of Law Mission in Kosovo), della Commissione internazionale per le persone scomparse (ICMP) e del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC). Ci vorranno settimane, perché il lavoro è lungo e delicato e va portato avanti con la cautela dovuta per dare un nome a quei resti, dopo che negli anni troppo spesso le identificazioni si sono rivelate errate.
Le cifre del fenomeno
Sebbene vi sia grande incertezza sulle dimensioni reali del fenomeno, quello che è certo è che in Serbia sono stati rinvenuti i corpi di circa 900 persone, sepolte in diverse fosse comuni disseminate in varie parti del paese: le più grandi furono scoperte nel giugno del 2001 – solo dopo il rovesciamento del presidente serbo Slobodan Milošević – a Batajnica, un sobborgo alle porte di Belgrado, in un’area dove le forze antiterroristiche serbe avevano un proprio campo di addestramento.
Una cifra spaventosa che si lega, secondo le ricostruzioni storiche più accreditate, alla precisa volontà di Milošević di nascondere le prove dei massacri compiuti in Kosovo dalle milizie serbe proprio nei mesi dell’intervento NATO, nella primavera del 1999, quando l’offensiva serba si fece più cruenta. Una “pratica”, va detto, perpetrata anche in campo avverso: sebbene numericamente inferiori, infatti, fosse comuni con resti di civili serbi sono state rinvenute anche in Kosovo.
Dall’insabbiamento di stato alla collaborazione?
Nel corso degli anni il lavoro di ritrovamento di questi siti è stato reso difficoltoso da reticenze e veri e propri depistaggi. Un ostruzionismo per il quale, in Serbia, non è stato trovato alcun responsabile. È stato solo il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, nel 2014, a condannare a 18 anni di reclusione Vlastimir Đorđević, capo del Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, anche in ragione del suo ruolo in quest’opera di insabbiamento delle prove.
Tuttavia, negli ultimi mesi qualcosa tra Pristina e Belgrado sembra essere cambiato, perlomeno per ciò che attiene questo aspetto. Nell’ambito dei patti bilaterali che entrambi i paesi hanno firmato con gli Stati Uniti nel settembre scorso, oltre a svariati pacchetti di natura economica e politica, il premier kosovaro Avdullah Hoti e il presidente serbo Aleksandar Vučić hanno infatti sottoscritto un accordo in cui si stabilisce un impegno reciproco “ad accelerare gli sforzi per localizzare e identificare i resti delle persone scomparse”. Un impegno rinnovato nei giorni successivi, quando le delegazioni dei due paesi sono tornate a incontrarsi a Bruxelles, incontro a valle del quale Vučić ha anche precisato che Serbia e Kosovo si sono vincolate a mettere a disposizione i propri archivi militari.
Con ogni evidenza, nel sottoscrivere un patto di tal tipo, le due cancellerie hanno guardato proprio a Bruxelles e agli sforzi in atto nell’ambito del processo di adesione all’Unione europea. Tuttavia, il terremoto politico e istituzionale che ha scosso il Kosovo nelle ultime settimane – su tematiche legate agli anni della guerra e proprio relativamente a presunti crimini condotti dall’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK) – rischia di sparigliare nuovamente le carte e di rimettere tutto in discussione.
La guerra infinita
C’è una voce dissonante al cauto ottimismo che ha accompagnato l’intesa serbo-kosovara sulle persone scomparse. È quella di Nesrete Kumnova, responsabile dell’ONG Mothers’ Cries, che lamenta la scarsa centralità data al tema nell’ambito del dialogo tra i due paesi a Bruxelles, chiedendo a gran voce di far parte della delegazione kosovara.
Nesrete cerca il figlio, Albion, da vent’anni, ed è anche per questo che merita non solo l’ovvia vicinanza umana, ma anche il massimo rispetto per ciò che dice. Ciononostante, vista da fuori – e forse proprio per questo, paradossalmente, con la giusta prospettiva – si avverte la sensazione che questa spasmodica ricerca rechi con sé l’effetto collaterale di protrarre all’infinito la guerra, di spostare la parola “fine” un giorno più in là. Dalla sua conclusione è passata una generazione: una generazione di giovani serbi e di giovani kosovari è cresciuta in un clima di ostilità reciproca, di continue rivendicazioni, di rimpalli di responsabilità. Una nuova generazione è cresciuta in una società che si è macerata nell’odio, nella rabbia.
Non si vuole negare il sacrosanto diritto a dare sepoltura ai propri cari, ma la percezione che i duecentocinquanta metri cubi di terra – cinquecento tonnellate – scavati per rimuovere i cinque metri di detriti che ricoprivano i corpi a Kizevak possano diventare un macigno sul processo di pacificazione è forte. Come se tutto quello scavare, quel cercare, quell’indagare non fosse, in fondo, che un modo per supplire all’incapacità di guardare avanti, di immaginarsi un futuro altro, un domani diverso. Di superare veramente.
Torna alla memoria una frase riportata nel diario di Obrad Stevanović, stretto collaboratore di Milošević ed ex comandante delle famigerate unità di polizia speciali serbe – anche lui impunito. Raccontando di un suo incontro con Milošević, Stevanović scrive che l’ex presidente, spiegandogli cosa fare dei cadaveri degli albanesi, gli avrebbe detto: “nessun corpo, nessun crimine”.
Ecco, sarebbe forse arrivato il momento d’avere il coraggio di dire che Milošević aveva torto.
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