È ufficiale: per la Macedonia del Nord, i negoziati di adesione all’Unione europea non cominceranno nel 2020. È bastato il no del governo bulgaro di Bojko Borisov per spezzare il fronte quasi unanime dei paesi membri dell’Unione: il veto della delegazione bulgara nel Consiglio “Affari generali” decreta così lo slittamento della conferenza intergovernativa, che si sarebbe dovuta tenere questo dicembre e che avrebbe dato l’avvio ufficiale alle trattative per un futuro ingresso di Skopje nel club europeo.
Dopo Grecia e Francia, la Bulgaria è il terzo stato membro a mettere i bastoni tra le ruote alla piccola repubblica balcanica nel suo percorso di integrazione europea. Ancora una volta, come nel caso della disputa con Atene, l’ostacolo è rappresentato da questioni bilaterali irrisolte tra i due paesi. In cima alla lista di richieste del governo bulgaro vi è il riconoscimento delle radici bulgare della lingua macedone, che Sofia vorrebbe vedere inserito nel quadro delle negoziazioni di adesione – una pretesa inaccettabile non solo per Skopje, ma anche per l’intero blocco europeo.
La battuta d’arresto nelle trattative ha generato un’atmosfera di frustrazione e diffuso risentimento anti-bulgaro nell’opinione pubblica e nella politica macedone, su cui aleggia lo spettro delle elezioni anticipate e del ritorno dei nazionalisti al governo. Nel contesto di generale “affaticamento” delle politiche di allargamento dell’UE, questo ennesimo stallo rischia di compromettere ulteriormente la credibilità dell’Unione nei confronti dei partner balcanici candidati e l’entusiasmo di questi ultimi nel progetto di integrazione europea.
Il ricatto bulgaro
Il pomo della discordia è l’accordo di Prespa, con cui la Macedonia, ora del Nord, cambiò nel 2019 il proprio nome ufficiale, risolvendo un contenzioso quasi trentennale con la Grecia. Nel testo dell’accordo, negoziato a livello delle Nazioni Unite, viene riconosciuta l’esistenza della lingua macedone: secondo Sofia, questo contraddice l’accordo di amicizia, buon vicinato e cooperazione firmato l’anno precedente con Skopje, in cui il macedone è riconosciuto solo in quanto espressione linguistica a cui fa riferimento la costituzione macedone. Inoltre, con Prespa viene ufficialmente accettata a livello UE la denominazione “Macedonia del Nord” come equivalente a quella più lunga preceduta da “Repubblica di”: l’uso del nome breve, secondo la Bulgaria, potrebbe in futuro dare luogo a rivendicazioni di parte del territorio bulgaro, in cui si estende la parte settentrionale della regione storica della Macedonia.
Il trattato di amicizia sembrava aver messo l’ultima parola su queste dispute, ma aveva lasciato a una commissione congiunta di storici bulgari e macedoni l’interpretazione “oggettiva e scientifica” di numerosi eventi della storia comune su cui Sofia e Skopje hanno visioni divergenti – una su tutte, l’identità etnica dell’eroe nazionale Goce Delčev, rivoluzionario bulgaro macedone di fine Ottocento celebrato in entrambi i paesi. I risultati della commissione congiunta sono stati finora limitati, complice anche l’inattività della stessa per oltre un anno. Per questo motivo, mentre rispetto alla lingua e al nome del paese gli ambasciatori europei sono ottimisti sulla possibilità di trovare un compromesso, un accordo complessivo sembra ancora molto lontano.
La richiesta di introdurre nel quadro negoziale dispute bilaterali su questioni di natura identitaria è inaccettabile per i restanti paesi membri dell’UE per due ordini di motivi: sarebbe la prima volta in cui nel corpus legale dell’Unione viene codificata una questione di ordine storico, su cui la legge europea non si è mai espressa; inoltre, si stabilirebbe un pericoloso precedente secondo il quale ogni paese membro potrebbe anteporre questioni di natura squisitamente bilaterale alla politica comunitaria di allargamento, compromettendone l’approccio unitario.
Ciononostante, le pressioni dei leader europei sulla Bulgaria sono state limitate, considerata la fitta agenda del Consiglio UE che attualmente vede al primo punto l’accordo sul budget pluriennale e sul Recovery Fund, minacciato dai veti di Polonia e Ungheria. In questo quadro, lo slittamento dei negoziati con la Macedonia del Nord è un prezzo che l’UE ritiene di poter pagare pur di non alienare Sofia nel braccio di ferro con Varsavia e Budapest.
Retroscena europei
Un’ulteriore vittima collaterale del veto bulgaro è fatalmente l’Albania, paese candidato all’adesione UE che lo scorso marzo aveva ricevuto il via libera del Consiglio europeo per l’avvio dei negoziati. Il paese guidato da Edi Rama è generalmente valutato dai partner europei come meno preparato dei vicini macedoni a un eventuale ingresso nell’Unione e la scelta di Bruxelles di affrontare in tandem i rapporti con i due paesi balcanici ha creato nell’ultimo anno un momentum positivo per Tirana. Un eventuale avvio della conferenza intergovernativa con la sola Albania avrebbe rappresentato una pesante umiliazione per la Macedonia del Nord e messo in discussione il principio del merito nella politica europea di allargamento: di conseguenza, anche per Tirana i negoziati di adesione sono rimandati.
Il silenzio sul destino della Macedonia del Nord nelle conclusioni del Consiglio rappresenta, tra l’altro, un danno severo alla reputazione della presidenza tedesca. Quest’ultima ha speso tutto il proprio capitale politico per l’avvio dei negoziati e fino all’ultimo ha tentato di favorire una mediazione, con il coinvolgimento diretto della cancelliera Angela Merkel al forum del Processo di Berlino, che quest’anno ha avuto luogo proprio a Sofia lo scorso 10 novembre. Nemmeno il promettente piano di integrazione economica regionale enunciato al summit di Sofia, co-presieduto da Borisov e dal primo ministro macedone Zoran Zaev, è valso a colmare la distanza tra i due paesi. Al contrario, le ultime settimane hanno visto un’escalation di accuse e discorsi d’odio tra personalità pubbliche, e a nulla sono serviti i tentativi di Zaev di smorzare i toni.
A complicare il quadro, l’atteggiamento ambiguo del Commissario per l’allargamento Olivér Várhelyi che in una seduta della commissione esteri del Parlamento europeo ha dichiarato che Skopje ha bisogno di compiere maggiori sforzi nei confronti della Bulgaria, prendendo di fatto posizione in una disputa su cui le istituzioni europee si sono generalmente mantenute equidistanti dai due contendenti.
Dissidi domestici
Sullo sfondo ci sono le manifestazioni spontanee contro la corruzione sistemica che dalla scorsa estate hanno raccolto la partecipazione di migliaia di cittadini bulgari e che hanno acceso i riflettori sulle responsabilità del governo di Borisov. La crisi di consenso, le conseguenze economiche della pandemia e le elezioni parlamentari a febbraio 2021 spiegano come un governo storicamente promotore dell’allargamento UE nei Balcani, come quello bulgaro, abbia scelto di fare marcia indietro, convogliando l’attenzione politico-mediatica attorno a una disputa identitaria con i vicini macedoni.
Su YouTube puoi rivedere la diretta di East Journal dedicata alle proteste in Bulgaria
A Skopje, l’intransigenza della Bulgaria e il conseguente fallimento dei negoziati rischiano di tradursi in un ulteriore indebolimento del socialdemocratico Zaev, che ha improntato il suo mandato all’insegna dell’integrazione europea. La scommessa di Zaev ha da sempre incontrato le resistenze dell’opposizione nazionalista, che proprio sulla questione dell’identità umiliata potrebbe raccogliere consenso. Tuttavia, finora le manifestazioni organizzate dall’opposizione contro il governo hanno registrato scarsa partecipazione, segno di una generale sfiducia degli elettori macedoni nei confronti della classe dirigente nel suo complesso.
Scenari futuri
Una svolta nei negoziati potrebbe dipendere dalla nomina, avvenuta la settimana scorsa, dell’ex primo ministro macedone Vlado Bučkovski a inviato speciale in Bulgaria. Bučkovski, esponente di spicco del partito di Zaev e di tendenze filo-bulgare, potrebbe rivelarsi nei prossimi mesi una figura chiave per favorire un clima di distensione tra Skopje e Sofia e ammorbidire le posizioni intransigenti del governo di Borisov.
È diffusa, ma forse mal riposta, la fiducia nel fatto che dopo le elezioni parlamentari di febbraio, qualunque sia l’esito, il mutato contesto domestico in Bulgaria sarebbe sufficiente a far cadere il veto: il sostanziale allineamento di maggioranza e opposizione sul dossier macedone farebbe infatti pensare il contrario. In attesa di ulteriori sviluppi, rimane per ora il sospetto che quest’ennesimo rinvio dei negoziati possa aver irrimediabilmente danneggiato i rapporti tra la Macedonia del Nord, sempre meno tollerante verso le ingerenze dei paesi confinanti, e un’Unione europea fiaccata dalle divisioni interne.
Immagine: Independent Balkan News Agency