Il padre
di Miljenko Jergović
traduzione di Elisa Copetti
Bottega Errante Edizioni, 2020
pp. 192
Euro 17
Se mi avesse potuto amare, o se ne avesse avuto modo, se avesse saputo scrollarsi di dosso ciò che le circostanze della vita gli avevano dato, non ci sarebbe neppure questo addio. Ma, suppongo, non ci sarebbe stato neppure il mio particolare interesse per la politica e per la storia del ventesimo secolo, soprattutto balcanica e jugoslava, che si ritrova nella maggior parte di ciò che ho scritto, nei libri o sui giornali. Non ci fosse quel puzzle che si è composto tanto perfettamente, sarei sicuramente uno scrittore diverso, o non sarei affatto uno scrittore.
Dobroslav Jergović muore a Sarajevo in una domenica del 2010. Nell’estate dello stesso anno viene pubblicato a Belgrado il volume Il padre (Otac), composto da suo figlio Miljenko Jergović, celebre prosatore e giornalista croato nato e cresciuto nella capitale bosniaca. Un puzzle di cinquanta tessere, allineate dallo scrittore con la maestria che l’ha reso celebre, dischiude in un ineluttabile effetto domino gli eventi e i protagonisti della propria giovinezza. A dieci anni dalla prima uscita Bottega Errante Edizioni ne propone la traduzione al pubblico italiano; è la terza opera dell’autore de Le Marlboro di Sarajevo nel catalogo della casa editrice friulana.
Il futuro non mi ha mai interessato. Fin dai tempi in cui frequentavo la scuola elementare, il futuro era fatto da: domani è lunedì e la prima ora c’è matematica. Il futuro appartiene ai sicuri di sé e agli avventati. Appartiene a chi sa che cosa fare di sé, a quelli a cui si è atrofizzata la fantasia. Perché la fantasia è sempre rivolta al passato, le grandi storie si immaginano nel tempo che l’uomo conosce e in cui si sente sicuro che sia un tempo passato.
Non propriamente un romanzo, bensì un “saggio” lucido e cadenzato, uno “scritto d’addio” privo di patetismi anche se autobiografico, a cui Jergović-figlio affida le sue riflessioni e ricordi su Jergović-padre, ma non solo. Delineando i tralci del suo albero genealogico, la penna del narratore annoda vicende personali agli avvenimenti che hanno scandito la storia moderna e recente di Sarajevo, della Bosnia e della Jugoslavia tutta, mettendone a nudo contraddizioni e ipocrisie. La linea biografica famigliare si fa cronaca e paradigma delle vicende della nazione abitata, a partire dal 1928, nell’allora Regno dei serbi, croati e sloveni, fino alla “lunga tregua che arde sotto la cenere” degli stati indipendenti odierni.
Cosa significa essere ustascia? C’è differenza tra le violenze perpetrate a Srebrenica, Jasenovac e Vukovar? Ci si può definire croati se non si è ricevuto il battesimo? Jergović interroga se stesso attraverso i suoi personaggi, in un monologo tinteggiato della franchezza e sagace ironia insite nel suo stile. Poiché molti degli interlocutori non sono più in vita, alle domande rimaste insolute risponde con la metafora, cioè quello “che non c’è ma è pur sempre vero”. Attingendo alla capacità propria della letteratura di trasformare il passato – esso stesso una metafora – in una “nuova realtà”, mette su carta ciò che “non si lascia costringere nelle parole”. Un tentativo complesso durato tutta una vita, quella di suo padre.
L’anima dell’uomo è di carta. Tramite la carta su cui sta scritto il suo nome e cognome, l’uomo si differenzia dalle bestie. Quando resta senza quella carta, è un potenziale malato di mente. Non perché sia pazzo, ma perché è radicalmente diverso. La sua diversità minaccia le altre persone, in esse risveglia il dubbio.
Rispettato ematologo dalla mentalità razionale e matematica, Dobroslav Jergović divorzia dalla moglie poco dopo la nascita del figlio. Ligio al dovere ma estraneo ai sentimenti, per tutta la sua esistenza è presente in quella del primogenito unicamente in qualità di stimato medico; a legarli giusto il gruppo sanguigno. Vittima della mancanza del genitore, il quale è a sua volta vittima della cattolica e rancorosa madre, Miljenko Jergović si fabbrica un padre di carta e inchiostro. Nella sua “solitudine zagabrese strategicamente scelta”, nel rifiuto di recarsi a Sarajevo per “quell’ultimo, simbolico incontro”, Jergović fa appello alla propria identità di scrittore, che deve anche a suo padre, per cercare finalmente di collocare quel tassello ancestrale, assente da quarantaquattro anni. E al lettore non resta che affidarsi al suo immenso talento, lasciandosi sospingere pagina dopo pagina lungo le anse di un testo denso ma fluido, intimo e ruvido al tempo stesso.
Mio padre è un essere irreale, uno hobbit, Marko Kraljević, un troll o Harry Potter, Saladino ne Le mille e una notte o Flash Gordon, su nell’alto dei cieli, così tutto quel che dico di lui e del tempo nel quale è vissuto è inventato. Non c’è verità sui morti, tranne che sono morti e non esistono più, come se non fossero mai esistiti. E anche finché era vivo, ne sapevo tanto poco di lui che mio padre per me è stato un essere di fantasia.
foto: profilo Instagram di Miljenko Jergović