L’ultimo romanzo di Serhij Žadan sulla trilogia del Donbas è finalmente uscito in lingua italiana nella traduzione dall’ucraino di Giovanna Brogi e Mariana Prokopovič, edito da Voland edizioni. Il noto autore de “La strada del Donbas” (Voland, 2016), poeta, compositore, cantautore e attivista politico, torna a far parlare di sé con “Il convitto” (Internat), pubblicizzato come l’ultimo atto di un lungo viaggio nei territori selvaggi dell’Ucraina orientale.
Il limbo ucraino
In questo romanzo ambientato nel 2015, Serhij Žadan racconta la storia di Paša, un giovane insegnante di lingua ucraina che, nel pieno dei combattimenti nella regione del Donbas, deve riportare a casa il nipote che vive in un convitto (da cui il titolo del romanzo). Un momento non del tutto appropriato per effettuare un simile viaggio, poiché l’esercito (ucraino) sta per lasciare la città, ormai circondata dalle truppe nemiche (separatiste). Nonostante il convitto si trovi a soli pochi chilometri, l’impresa di Paša, descritta come un’odissea, dura un’intera giornata: il giovane insegnante deve vedersela con posti di blocco improvvisati, terreni minati, truppe paramilitari e personaggi tanto reali quanto assurdi.
Il primo è il misterioso giornalista straniero, Peter, che aiuta Paša prima ad accedere nel territorio dall’altra parte del fronte (nell’aldilà simbolico) e, poi, a uscirne. E non è un caso che il primo luogo dove si incontrano, scortati dai militari, è un edificio chiamato “Paradise”, un “paradiso” su cui Peter ironizza richiamando Dante:
– ‘Paradise’ – dice ridendo. – Assomiglia piuttosto al primo cerchio dell’inferno. Allora, vieni con noi? – butta lì rivolgendosi a Paša, poi si avvicina al gruppo. (p. 29)
Paša lo segue, senza sapere che scenderà nei cerchi e nei gironi ancora più oscuri per adempiere alla sua missione. Ma i paragoni con il viaggio di Dante nella selva oscura non finiscono qui: la figura di Caronte, il famoso traghettatore dell’inferno, viene incarnata da un tassista alquanto folle soprannominato Iguana che accompagna – con la sua guida spericolata – le persone lungo la “terra di nessuno”:
E il tassista con una giacca di pelle smisurata, sciupata e logora come se ci dormisse, come se fosse la sua stessa pelle, sembra un vecchio iguana allo zoo. […] Il tassista iguana sembra conoscere la strada come il proprio corpo: gratta dove serve, preme dove duole. (pp. 45 e 49)
Sebbene non venga mai citata, la città di cui parla Žadan è probabilmente la nota Debal’ceve, snodo ferroviario molto importante della regione che, dal 2015, appartiene alla de facto alla repubblica popolare di Donetsk (DNR). Tuttavia, ne “Il convitto” non vengono mai menzionati né la presunta città, né le forze armate in guerra, né tantomeno i colori delle loro bandiere. Una vaghezza certamente voluta dall’autore e che rende le vicende di Paša più vicine al lettore, universalizzandole: questa guerra non è poi così diversa dalle altre e chiunque potrebbe ritrovarsi a viverla nei panni di Paša o di qualsiasi altro civile, in Ucraina come altrove.
La seconda strada dopo la stazione ferroviaria, un quartiere residenziale densamente popolato in cui vivevano soprattutto i dipendenti della ferrovia. Il loro intero insediamento era stato costruito attorno alla stazione: lei dava il lavoro, dava anche la speranza, come un cuore annerito dal fumo delle locomotive che pompa il sangue negli avvallamenti e nei boschi circostanti. Anche ora che il deposito era vuoto come una piscina senz’acqua e nelle officine vivevano solo le rondini e i senzatetto, la vita continuava comunque a reggersi sulla ferrovia. Soltanto che adesso il lavoro non c’era. Per qualche ragione il lavoro è la prima cosa che scompare proprio nei quartieri operai. (p. 8)
Semplificare la storia e il personaggio di Paša, un trentacinquenne che vive in quelle “terre di nessuno”, non è possibile: sono vani i tentativi di questo giovane insegnante di nascondersi dalla realtà, di isolarsi nel suo mondo e cercare di rimanere neutrale nei confronti del conflitto che imperversa nel suo paese. Un conflitto che finisce involontariamente per coinvolgerlo e influenzarlo, provocando cambiamenti interni (nell’anima) ed esterni (in tutto ciò che accade intorno a lui). Si scopre che, forse, non è lui a riportare a casa il nipote dal convitto, ma il contrario: il giovane insegnante si lascia trascinare dagli eventi, agendo solo sotto l’influenza di persone e circostanze, spesso in maniera fin troppo emotiva. E questo suo viaggio – tanto reale quanto metaforico – di andata e ritorno al convitto diventa il vero filo conduttore della trama del volume di Serhij Žadan.
Uno stile inconfondibile
Il peggio è che Paša non riesce proprio a capire in che lingua parli. Le parole gli escono di bocca così spezzate e rotte da non avere né intonazione né accento, grida e basta, come se a furia di tossire volesse liberarsi di un raffreddore. In realtà dovrebbe parlare la lingua di stato, pensa Paša in preda al panico. (p. 18)
Vale la pena soffermarsi un attimo sulla lingua di Serhij Žadan. Il libro è scritto nello stile tipico di questo autore, che rivela la sua indubbia anima lirica nelle lunghe descrizioni metaforiche dei paesaggi; ogni parola, ogni azione, ogni dettaglio viene enfatizzato per far immergere il lettore nel racconto di una guerra vista attraverso gli occhi di un civile.
Nonostante il tema, la lingua di Žadan scorre morbida; i personaggi di cui racconta non sono eroi, soldati, veterani o politici, ma sono esseri umani vicini a noi, intrappolati in una realtà che gli è caduta addosso. Il romanzo, ricco di scene apocalittiche che ricordano il volume precedente (La strada del Donbas), non dipinge una guerra eroica: la guerra di Paša – e di Žadan – è grigia, bagnata, crudele e stanca, e odora di “pollame umido”.
Ognuno di noi qui, se ci si pensa bene, vive come nel convitto. Abbandonati da tutti, ma con il trucco fatto. (p. 137)
Immagine: m.day.kyiv.ua