Questo articolo è frutto di una collaborazione con OBCT
Da KIEV – Holodomor è una parola che, almeno fino a qualche decennio fa, anche in Ucraina si evitava di pronunciare ad alta voce in quanto racchiude un significato agghiacciante: è un termine composto che deriva dall’espressione moryty holodom – letteralmente “infliggere la morte mediante la fame”. La lingua ucraina ha combinato quindi le parole holod (fame, carestia) e moryty (uccidere, esaurire, condannare a morte) per coniare un termine che vuole mettere in rilievo l’intenzionalità di procurare la morte attraverso la mancanza di cibo.
Tra il 1932 e il 1933, nell’ex Repubblica Sovietica d’Ucraina e nei territori confinanti del Caucaso settentrionale e del Basso Volga, trovarono la morte per fame quasi 7 milioni di persone. La terribile carestia, che porta il nome di Holodomor e che è oggi riconosciuta dall’Ucraina e da altri 17 paesi come un genocidio nei confronti del popolo ucraino fu – secondo molti storici – non solo il risultato della politica di collettivizzazione forzata voluta dal governo sovietico, ma anche una deliberata scelta di Stalin per reprimere le aspirazioni nazionaliste dell’Ucraina.
Il 28 novembre 2006, la Verchovna Rada (il parlamento ucraino) ha adottato la legge “Sull’Holodomor del 1932-1933 in Ucraina“, che riconosce la “grande fame” come un atto di genocidio nei confronti del popolo ucraino. Da allora, il quarto sabato di novembre, il paese celebra la Giornata nazionale della memoria delle vittime dell’Holodomor che, tradizionalmente, prevede un servizio funebre nella capitale, nei pressi del “candelabro commemorativo” (Sviča Pam’jati) situato sulla riva destra del fiume Dnipro, non lontano dal complesso religioso Pečerska Lavra.
Perché l’Ucraina?
Dopo la spartizione a metà del Seicento dell’Ucraina tra la Confederazione polacco-lituana e il regno di Mosca, nei due secoli successivi la nazione ucraina è rimasta priva di una propria statualità. La nascita del primo stato ucraino indipendente avvenne solo nel dicembre 1917 con la creazione della Repubblica popolare ucraina; ma ebbe vita breve: dovendosi scontrare con le continue invasioni e le interferenze esterne negli affari del paese, gli ucraini non riuscirono a porre le basi per un’indipendenza duratura. Furono i bolscevichi nel 1922 a riuscire ad unire i territori ucraini sotto un’unica bandiera, quella sovietica: il 30 dicembre fu ufficialmente istituita la Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina, che ebbe come prima capitale la città orientale di Charkiv(1918-1934), ricordata talvolta come “la capitale della carestia” (fu, infatti, proprio in seguito alla tragedia dell’Holodomor, che la capitale venne trasferita a Kiev).
Il regime sovietico apportò cambiamenti significativi nella vita sociale, politica ed economica dell’Ucraina, che interessarono soprattutto lo stile di vita della provincia e dei villaggi tradizionali. Le autorità sovietiche imposero al popolo ucraino nuovi usi e costumi, spesso e volentieri costringendolo a rinunciare al proprio passato e a dimenticare le proprie origini.
I leader sovietici attribuirono fin da subito una grande importanza all’opera di russificazione nel paese, ben consci del sentimento nazionalista e indipendentista ucraino, che rappresentava una seria minaccia per l’ideologia sovietica. La prima vittima fu l’intelligencija, classe pensante e cervello della nazione: insegnanti, scrittori, artisti, pensatori, leader politici e spirituali furono prima accolti a vivere sotto lo stesso tetto, poi liquidati, imprigionati o deportati tra gli anni Venti e Trenta del XX secolo (la fossa comune di Sandarmoch scoperta dallo storico Jurij Dmitriev ne è un esempio). Seguirono gli attacchi nei confronti della Chiesa, considerata l’anima dell’Ucraina. E, infine, si andò a colpire la classe lavoratrice: i contadini, i veri custodi delle tradizioni, del folclore e, più ampiamente, dello spirito nazionale ucraino. E l’arma che venne usata per reprimerli fu quella più cruenta di tutte: la fame.
Dalla collettivizzazione alla carestia
Nel 1928 la leadership sovietica annunciò una politica di collettivizzazione mirata a riorganizzare l’attività agricola in tutte le sue repubbliche. Vennero istituite aziende agricole collettive (kolchoz) e aziende agricole statali (sovchoz), queste ultime condotte da operai contadini che, a differenza dei colcosiani, producevano direttamente per lo stato: il contadino non avrebbe più ricevuto un compenso in danaro (salario), ma una quota dei beni prodotti. L’opera di collettivizzazione, però, non raggiunse i risultati voluti: una grande carestia si abbatté in tutta l’Unione Sovietica, prendendo una forma particolare nella repubblica sovietica dell’Ucraina, prevalentemente agricola, e Stalin finì per usare la carestia già esistente per ‘risolvere il problema ucraino’. La politica di collettivizzazione aveva infatti provocato una forte resistenza tra il popolo ucraino: gli storici hanno registrato circa 4mila manifestazioni di massa di contadini all’inizio degli anni Trenta contro la collettivizzazione, la politica fiscale, le requisizioni, il terrore e la violenza compiuta dalle autorità. Una vera minaccia per l’unità e l’esistenza stessa dell’URSS.
Stalin e compagni erano ben consapevoli del pericolo di rivolte e ribellioni e, non volendo perdere l’Ucraina (il “granaio sovietico”), nel 1932 il regime pensò a uno stratagemma per sterminare (o quantomeno mettere a tacere) la nazione ucraina, abilmente mascherato da uno dei piani di collettivizzazione: si trattava di confiscare tutte le scorte di grano e di generi alimentari come sanzione per il fallimento del piano statale di approvvigionamento di grano. Il governo sovietico così accentuò la crisi agricola già in atto, creando una carestia “su ordinazione”, imponendo una quota di grano estremamente alta e non realistica come tassa statale: la produzione di circa 6 milioni di chili di grano.
Per attuare questo piano a Charkiv giunsero i più stretti collaboratori di Stalin, tra cui Lazar Kaganovič e Vjačeslav Molotov. Al fine di rafforzare la “grande fame” in Ucraina il politburo del comitato centrale del PCUS, sotto la pressione di Molotov, il 18 novembre 1932 adottò una risoluzione che introduceva un regime repressivo specifico: le “lavagne nere”. Negli anni Venti e Trenta, i giornali pubblicavano regolarmente elenchi di distretti, villaggi, fattorie collettive, imprese o persino individui che non avevano soddisfatto i loro piani di approvvigionamento alimentare; i debitori che rientravano nelle liste di queste “lavagne nere” erano soggetti a multe e sanzioni. Negli anni della carestia, inserire un villaggio intero sulla “lavagna nera” significava una condanna a morte per i suoi abitanti. Nel biennio 1932-1933 il regime delle “lavagne nere” agì in oltre 180 distretti dell’URSS tra l’Ucraina e il Kuban, nelle aree in cui vivevano gli ucraini, privandoli di alcuni diritti e creando condizioni di vita impossibili: divieto di commercio e trasporto di merci, rimozione totale delle scorte di cibo, divieto di lasciare i territori e presenza costante di unità militari e polizia di controllo.
È importante notare, inoltre, che la carestia non fu solo il risultato della requisizione del grano, sebbene quella fosse la parte più importante. Le brigate di controllo portarono via di tutto: verdure, patate, barbabietole, carne e, naturalmente, utensili da lavoro e macchinari che costrinsero così i contadini a lavorare duramente. Di fronte alla carestia, migliaia di persone tentarono di lasciare le campagne per le città alla ricerca di cibo; quelle che restarono morirono giorno dopo giorno, spesso vittime anche di cannibalismo, come racconta magistralmente il recente film di Agnieszka Holland, Mr. Jones.
Come afferma Anne Applebaum, editorialista per The Washington Post e autrice del libro “La carestia rossa: la guerra di Stalin contro l’Ucraina”, “c’è la storia della carestia nell’Unione Sovietica e, al suo interno, c’è la storia della carestia ucraina. Ho intenzionalmente scritto il libro tenendolo presente, per approfondire questa interpretazione storica diversa”. Applebaum, nella sua opera, argomenta che la “grande fame” non fu una colpa non intenzionale della politica sovietica di collettivizzazione, ma che Stalin la usò per mettere a tacere i contadini, temendo che qualsiasi dissenso – in particolare quello legato all’idea nazionale ucraina – si sarebbe rivelato una minaccia vitale per l’Unione Sovietica. La fame fu, perciò, organizzata e indotta artificialmente attraverso la legalizzazione della violenza e l’omicidio di massa di ucraini da parte di rappresentanti del governo. Circa 400 documenti d’archivio lo confermano e dimostrano che non tutte le regioni dell’Ucraina hanno sofferto allo stesso modo della carestia, un altro dettaglio che testimonia l’artificiosità di questo atto.
Un genocidio parzialmente riconosciuto
Secondo i risultati della ricerca dell’Istituto di demografia e studi sociali di Ptucha, sono morte complessivamente circa 4,5 milioni di persone a causa dell’Holodomor nei soli territori della Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina. Tuttavia, la questione sulla quantità di vittime in Ucraina a causa di questa “fame gestita” rimane ancora aperta: la maggior parte dei ricercatori sostiene che il numero di morti superi i 7 milioni di persone, sparsi tra la Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina e le altre regioni dell’URSS – il Kuban, la regione della Terra Nera centrale (černozem), la regione del Basso Volga e il Kazakistan. Alcune circostanze storiche hanno reso i calcoli complicati: riconoscere le vittime morte per malnutrizione e inedia non è scontato, visto che allora venivano spesso registrate come morti “per esaurimento”, “tifo”, “vecchiaia” al fine di nasconderne la vera causa. L’Ucraina tiene oggi un registro unificato delle vittime dell’Holodomor.
Lo sterminio per fame non fu solo una conseguenza della politica staliniana in Ucraina: anche la lotta ai kulaki (i piccoli proprietari terrieri) – con conseguenti deportazioni di massa da un angolo all’altro dell’impero sovietico – e il fallimento economico si rivelarono un disastro dal punto di vista umanitario. Anzi, un “castigo internazionale”, come l’ha definito lo scrittore Vasilij Grossman in “Tutto scorre”: l’autore ha descritto nel suo romanzo la natura dell’Holodomor, crimine basato sulla “rabbia di Mosca verso l’Ucraina“.
Per decenni, l’argomento dell’Holodomor è stato tabù anche all’interno della stessa Ucraina: solo il 28 novembre 2006 il parlamento ha riconosciuto l’Holodomor come genocidio – dunque come “un insieme di azioni intenzionali volte alla distruzione totale o parziale di specifici gruppi di popolazione o di intere nazioni sulla base di motivi nazionali, etnici, razziali, religiosi”. Anche l’attivista per i diritti umani polacco Raphael Lemkin, che per primo ha coniato il termine “genocidio”, ha definito l’Holodomor un genocidio; altri 17 governi hanno fatto lo stesso. L’Italia, insieme ad altri paesi, ha condannato l’Holodomor come atto di sterminio dell’umanità commesso dal regime totalitario stalinista, commemorandone le vittime, ma senza riconoscerlo apertamente come genocidio. L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (PACE) e il Parlamento europeo l’hanno definito un crimine contro l’umanità, mentre nel novembre 2003 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una dichiarazione che riconosce l’Holodomor come “tragedia nazionale del popolo ucraino“.
La posizione russa
Il Cremlino ha sempre negato il suo coinvolgimento nella storia dell’Holodomor. Nell’aprile 2008 la camera bassa del parlamento russo (Duma di Stato) ha approvato una risoluzione in cui si afferma che non ci sono prove storiche che la “grande fame” sia stata organizzata secondo linee etniche dal regime sovietico di allora, definendo l’Holodomor “oggetto di speculazione politica moderna“.
La Russia non solo nega categoricamente che l’Holodomor sia stato un genocidio, ma si oppone anche attivamente al riconoscimento di esso da parte di altri paesi: la leadership russa, secondo vari documenti resi pubblici su WikiLeaks, ha fatto pressione a livello internazionale affinché non si appoggiassero gli appelli dell’Ucraina a riconoscere l’Holodomor come genocidio, utilizzando la tesi secondo cui lo sterminio è stato semplicemente “una carestia causata da fattori naturali che ha travolto molte repubbliche dell’ex-URSS”, e perciò non rivolto esclusivamente contro il popolo ucraino. In particolare, il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, ha ricevuto una lettera dall’allora presidente russo Dmitrij Medvedev che gli intimava che se l’Azerbaijan avesse sostenuto la designazione della carestia artificiale bolscevica in Ucraina come “genocidio” alle Nazioni Unite, avrebbe potuto benissimo dimenticarsi di rivedere il Nagorno Karabakh.
Rivelare la verità sull’Holodomor del 1932-33 e riconoscerlo come un atto di genocidio contro gli ucraini smentirebbe anche il mito della fratellanza tra i popoli promosso dal socialismo sovietico e priverebbe il Cremlino del diritto etico di speculare su di essa per promuovere i propri interessi geopolitici in Ucraina (e, di fatto, nelle ex repubbliche sovietiche). Come afferma Nikita Petrov, storico membro dell’associazione Memorial, la Russia è stata recentemente riluttante a menzionare le repressioni degli anni Trenta e Quaranta e i crimini del regime stalinista: lo dimostra la detenzione dello storico careliano che si è occupato di Gulag, Jurij Dmitriev, dietro le sbarre con accuse fabbricate contro di lui.
L’associazione Ukraïner, in collaborazione con il Museo Nazionale dell’Holodomor-Genocidio di Kiev e con il supporto dell’Ukrainian Cultural Foundation (UCF), ha realizzato questo breve documentario in lingua inglese: “What is the Holodomor?”
Immagine: Holodomor Museum