Lo scorso marzo è stato presentato il cosiddetto Green Deal, la nuova strategia climatica con cui Bruxelles mira a trasformare l’Unione Europea in una società climaticamente neutra ed equa, che possa giovare alla vita delle generazioni presenti e future; una società efficiente, sostenibile e competitiva, in cui la crescita economica non sia più legata allo sfruttamento indiscriminato delle risorse. In linea con le priorità dell’agenda strategica 2019-2024, il nuovo Patto verde europeo riafferma l’ambizione della Commissione di fare dell’Europa la prima macroregione de-carbonizzata al mondo entro il 2050.
Conformemente agli accordi di Parigi del 2015, l’obiettivo preposto per fine 2030 è quello di ridurre le emissioni di gas serra del 50%, così da poter arrivare alla piena neutralità climatica entro i successivi due decenni. Secondo la Commissione, per raggiungere questo ambizioso traguardo serviranno 260 miliardi di euro all’anno, importo che dovrebbe salire a 576 miliardi entro il 2050.
Tutto ciò si traduce nella necessità inderogabile di una transizione energetica da fonti tradizionali verso alternative verdi e pulite, il che significa favorire la diffusione delle energie rinnovabili disincentivando, al contempo, l’uso di combustibili fossili. Come dimostra un recente rapporto del Servizio Studi del Parlamento Europeo, la combustione di quest’ultimi (carbone in primis) è infatti responsabile del 54% delle emissioni inquinanti totali nell’area UE. Cosa questo significherà, dunque, per i lavoratori dell’industria fossile?
Riconvertire il settore carbonifero: a rischio mezzo milione di posti di lavoro
Nel 2018 circa il 16% della produzione energetica europea è stato fornito dal carbone e, sebbene in alcuni paesi l’utilizzo di questo minerale ricopra un ruolo marginale, in altri (Bulgaria, Polonia, Repubblica Ceca, Romania) il suo apporto alla produzione domestica di energia elettrica è di fondamentale importanza. Secondo l’ultimo parere del Comitato europeo delle Regioni (CdR) sulla ristrutturazione socioeconomica delle regioni carbonifere in Europa, attualmente l’estrazione del carbone dà lavoro a 185 mila persone, mentre ulteriori 52 mila vengono occupate nel settore della produzione di energia elettrica da esso derivata. Inoltre, l’industria carbonifera è legata a diverse attività economiche, come la fornitura di fattori produttivi, di beni strumentali, di servizi e beni di consumo, dalle quali dipendono altri 215 mila lavoratori.
Queste importanti cifre ci permettono di trarre due principali conclusioni. La prima è che, nonostante il settore del carbone abbia registrato un considerevole calo dagli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, complici gli estesi interventi di eliminazione progressiva, esso continua a rappresentare un elemento chiave per lo sviluppo socio-economico di molti paesi dell’Europa centro-orientale, dove, tra l’altro, la presenza di tecnologie rinnovabili (come impianti eolici e solari) è ancora molto limitata. La seconda, invece, è che non risulta facile esimersi dal notare come l’idea di una “transizione equa” possa mettere a rischio un cospicuo numero di posti di lavoro, rivelandosi un fattore di inasprimento delle disuguaglianze economiche, già acuite dal peso della crisi sanitaria.
La politica ambientale oggetto di contesa
Alla luce di un tale scenario numerosi governi sono apparsi subito scettici nei confronti del Green Deal. Varsavia (l’unica dei 27), durante il Consiglio europeo dello scorso dicembre, si è addirittura astenuta dal sottoscrivere gli obiettivi prefissati, sostenendo che il piano UE sia penalizzante per la sua economia, ancora molto legata al carbone.
La sentita contrarietà al progetto si spiega in ragione del fatto che, così come quella polacca, molte altre economie (Estonia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Romania) non hanno i mezzi necessari per affrontare al meglio la transizione in quanto troppo dipendenti dai combustibili fossili. Per questi paesi, emersi poco più di trent’anni fa dal modello di economia centralizzata pianificata di matrice socialista, un cambio di paradigma energetico rappresenta indubbiamente una sfida epocale. Essi, inoltre, temono che il costo delle nuove politiche verdi possa comportare un trasferimento delle quote loro destinate sotto forma di politica di coesione o di politica agricola comune (PAC) verso altri stati.
Chi pagherà il prezzo della transizione?
Al fine di attenuare le ripercussioni socioeconomiche del Green Deal e garantire che la transizione verso un’unione climaticamente neutra non lasci indietro nessuno, la Commissione europea ha garantito sostegno finanziario e assistenza tecnica. A questo scopo è stato istituito il meccanismo per una transizione giusta, uno strumento che offrirà sostegno mirato per contribuire alla mobilitazione di almeno 150 miliardi di euro nel periodo 2021-2027. Gli aiuti saranno disponibili a tutti gli stati membri e si concentreranno sulle regioni a più alta intensità di emissioni, ovvero dove il numero di occupati nel settore dei combustibili fossili è più elevato. Così facendo, il meccanismo dovrebbe riuscire a calmierare le eventuali ripartizioni dei flussi finanziari che minacciano i paesi più vulnerabili.
Non è un caso che dietro la pressione di questi ultimi la dotazione del fondo sia stata recentemente rimpinguata (da 7,5 a 44 miliardi di euro). Per quanto questa conquista possa aver blandito i loro animi, tuttavia, gli esecutivi dell’Europa centro-orientale non hanno lesinato timore circa la possibilità della strategia comunitaria di rivelarsi uno strumento atto al mantenimento di quegli stati membri meno abbienti in una posizione di subalternità economica. Ironia della sorte, la fondatezza di questa preoccupazione è stata messa in luce dal consiglio europeo straordinario dello scorso 21 luglio, durante il quale si è convenuto di ridimensionare il fondo dai 44 miliardi pianificati a soli 17,5.
Tagli drastici, questi, che per i beneficiari del fondo hanno significato un ulteriore motivo di resistenza ai tentativi di accelerare gli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti. Non sorprende, quindi, che la prospettiva di una transizione energetica sollevi paure, sfiducia e talvolta il rifiuto della necessità effettiva di una politica climatica. Contrariamente alle aspettative, per i paesi dell’Unione il grandioso Green Deal sembra essersi rivelato una forza non unificante, bensì di separazione.
Immagine: European Scientist