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Violenza domestica, un’eredità del “socialismo patriarcale”

“Picchia la moglie prima di pranzo, così che la zuppa sia calda!” suggerisce il “Domostroj, una sorta di manuale della vita domestica scritto nella Russia del sedicesimo secolo. Il “Domostroj” contiene, tra le altre cose, indicazioni su come strutturare i rapporti tra i membri della famiglia, ovviamente in modo gerarchico e con una buona dose di violenza. Arrivata la Rivoluzione, le stesse donne che avevano il “Domostroj” nelle loro librerie acquisirono improvvisamente gli stessi diritti degli uomini. Nel 1930 Stalin dichiarò che il problema dell’emancipazione della donna era risolto; l’idea che le donne subissero ancora violenza in ambito domestico venne da allora considerata obsoleta.

Tuttavia, a poco più di cento anni dalla rivoluzione, in tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica, nonostante le grandi differenze culturali, religiose e geografiche, la violenza sulle donne è ancora diffusa e gli sforzi per combatterla sono spesso insufficienti. Si stima, ad esempio, che ogni anno in Russia 14.000 donne muoiano per mano del loro partner (40 al giorno), mentre in Ucraina nel 2018 sono stati registrati ben 142.000 casi di violenza domestica. In Kazakistan, una donna su cinque ha subito violenza, in Kirghizistan una su tre. Dei paesi ex-Urss facenti parte del Consiglio d’Europa, solo Estonia e Georgia hanno ratificato la convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza domestica. Leggi contro la violenza domestica esistono solo in Moldavia dal 2007, in Kazakistan dal 2009, in Ucraina dal 2019. Queste leggi sono state più volte proposte ma bloccate in Russia e in Bielorussia, mentre ovunque spesso mancano le risorse per offrire il supporto necessario alle vittime. Come si è arrivati a questa situazione e che ruolo gioca l’eredità sovietica nella diffusione della violenza domestica in questa regione?

“Operaie e contadine”, ma soprattutto vittime

Dopo la Rivoluzione, non solo le donne ottennero gli stessi diritti degli uomini, ma il loro ruolo nella società, fino ad allora confinato all’interno delle mura domestiche, fu subito messo in discussione, così come l’idea stessa di famiglia, considerata una struttura borghese e obsoleta. Le donne ottennero nuovi diritti come quello al divorzio e all’aborto, ed entrarono nel mondo del lavoro alla pari degli uomini. In pratica però, continuarono ad addossarsi la maggior parte dei lavori domestici e a subire violenza in ambito familiare.

L’ascesa di Stalin segnò un ritorno a idee più conservatrici, visto che la famiglia tradizionale divenne un modo per assicurare maggiore stabilità sociale e soprattutto per favorire il ripopolamento dell’Unione Sovietica dopo le terribili perdite della Seconda guerra mondiale. Tramite una serie di nuove leggi, che continuarono a venire emanate fino agli anni ’70, divenne sempre più difficile ottenere il divorzio, l’aborto divenne illegale e cominciarono una serie di strategie, propagandistiche e di supporto economico, per incoraggiare le donne a tornare all’ambito domestico per fare più figli, rendendo loro ancora più difficile andarsene in caso di abusi.

Ammettere i propri fallimenti

Sin dall’inizio, fu difficile per il governo sovietico conciliare la diffusione del fenomeno della violenza domestica con la teoria marxista-leninista. Secondo quest’ultima, infatti, la criminalità in generale, compresi atti violenti e omicidi, era causata dalla divisione capitalista della società in classi e sarebbe quindi dovuta gradualmente scomparire nella nuova società socialista.

Quando divenne evidente che questo non era successo, a partire dagli anni ’30 i casi di violenza domestica cominciarono a venire puniti come crimini di “hooliganismo”, un termine generico con cui nel quadro legislativo sovietico venivano definiti i crimini contro la società. Era così molto più facile attribuire le cause del fenomeno ai comportamenti sconsiderati di “hooligan”, “mele marce” e vandali, piuttosto che ammettere la presenza di un problema strutturale.

Dalla fine degli anni ‘60, entrò nella legislazione sovietica la concezione di bytovoe prestuplenije, cioè di crimini che hanno a che fare col byt, “il vivere quotidiano”. Le violenze venivano così inquadrate come conseguenze di semplici litigi a tema domestico finiti male, causati da cause economiche e sociali esterne (come l’abuso di alcol e le cattive condizioni lavorative o abitative), che si sarebbero risolte con il graduale miglioramento delle condizioni di vita dei sovietici. Per mantenere le apparenze, il problema della violenza domestica rimase così in gran parte sommerso fino alla caduta dell’Urss.

“Socialismo patriarcale” e valori tradizionali

La violenza domestica in Unione Sovietica era dunque un fenomeno ampiamente diffuso, figlio di una visione patriarcale e violenta della famiglia che esisteva da ben prima della Rivoluzione, e che lo stato si rifiutò di affrontare per mantenere l’apparenza di una coerenza ideologica.

Così facendo, si creò quello che Marianna Muravyeva definisce “socialismo patriarcale”, in cui, tramite una politica di uguaglianza formale e di “identicità” dei generi, la superiorità degli uomini, che già esisteva tradizionalmente, non venne mai messa in discussione e rimase quindi immutata. Questa eredità è un ostacolo per la lotta alla violenza domestica oggi, perché è parte di un sistema in cui la formale parità dei sessi ha paradossalmente impedito di mettere in discussione la struttura patriarcale e violenta della famiglia, quella dei tempi del “Domostroj”, che è così sopravvissuta nascosta dietro alle apparenze. La violenza domestica sulle donne, ineluttabilmente legata all’esistenza di tali strutture, ha così continuato e continua a prosperare insieme ad esse.

Foto: “Famiglia” di Ivan Stepanov

Chi è Martina Bergamaschi

Laureata in Interdiscilplinary Research and Studies on Eastern Europe all'Università di Bologna, lavora nel campo della cooperazione internazionale, al momento nell'est dell'Ucraina. Per East Journal scrive soprattutto di Russia, dove ha vissuto per due anni tra Mosca, San Pietroburgo e Kirov.

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