Il 23 aprile 1985, allo stadio Grbavica di Sarajevo, lo Željezničar toccava il punto più alto e più triste della sua storia. Era il ritorno della semifinale di Coppa UEFA. In 86 minuti di gioco, i ragazzi in maglia blu avevano preso a pallonate gli ungheresi del Videoton, segnando però solo due gol, appena sufficienti per il passaggio del turno. Un minuto dopo, un anonimo terzino ungherese, che a Sarajevo ancora oggi molti ricordano, faceva calare il gelo sullo stadio: Jozsef Csuhay infilava in rete l’unico pallone utile dell’intera partita degli ungheresi e portava il Videoton in finale contro il Real Madrid. A parole è difficile spiegare come io, che sono nato dieci anni dopo quella sera, non riesca a non ripensare a quei momenti senza un velo di pesante tristezza.
Anni di buio e di guerra
Dall’aprile 1985 all’aprile 1992 passano sette grigi anni, prima che arrivi il buio vero, quello della guerra, che entra nelle vite dei sarajevesi senza bussare, come scriveva il poeta Izet Sarajlić, e stravolge ogni lato della quotidianità della città. Per lo Željezničar la guerra comincia il 5 aprile 1992, quando era in programma una partita del campionato jugoslavo contro il Rad di Belgrado, fermata dalle raffiche provenienti dalle colline circostanti e dimenticata per far spazio a una nuova esistenza, fatta di granate, fame, resistenza e distruzione.
La storia dello Željezničar di questi anni è fatta di calciatori e tifosi uniti nel difendere la città dall’assedio e dalla barbarie: è lo stadio di Grbavica tagliato da una linea del fronte militare, minato e dato alle fiamme dall’esercito serbo; è il giovane Dževad Begić “Đilda“, che da capo ultras passa a combattere sul fronte, perdendo la vita nel tentativo di aiutare una concittadina ferita da un cecchino; è Ivica Osim, l’architetto della squadra del 1985, che a Belgrado lascia la guida della nazionale jugoslava in lacrime, ricordando a tutti cosa stava succedendo nella sua città.
Anche in questi anni, lo Željezničar dimostra di essere una comunità, fatta di vite che resistono e lottano fino alla liberazione della città e del quartiere di Grbavica, da cui prendono il nome lo stadio e una canzone di guerra, cantata prima di ogni partita dal pubblico di casa. Una canzone scritta da Mladen Vojičić “Tifa” durante gli anni dell’occupazione militare serba del quartiere, che tenta di consolare la stessa Grbavica, vista da lontano dai suoi abitanti, profughi nella loro stessa città, che sognano il giorno del loro ritorno, che arrivò il 19 marzo 1996.
Un club di ferrovieri, aperto a tutti
La guerra ha lasciato un’impronta grande sull’identità del club, che nella seconda parte degli anni Novanta ha portato sul proprio stemma il simbolo dell’esercito della Repubblica di Bosnia-Erzegovina (ARBiH). Anche il gruppo ultras dei Manijaci ha iniziato a connotarsi per un patriottismo molto spinto, sconfinante talvolta in prese di posizione di stampo nazionalista.
Lo Željezničar, però, è soprattutto un club aperto a tutti. Lo è dalla sua fondazione, avvenuta nel 1921 a opera di un gruppo di ferrovieri. Al tempo, non molto diversamente da oggi, a Sarajevo, ogni associazione, sportiva o meno, indicava nel proprio nome l’appartenenza etnica dei suoi componenti. Invece, i ferrovieri decisero che il loro club sarebbe stato aperto a tutti, indipendentemente dall’appartenenza nazionale, religiosa o sociale.
Questa impronta è rimasta ancora oggi intatta, nonostante la recente guerra. Una delle figure più amate a Grbavica è Stole Anđelić, un fedelissimo tifoso proveniente dalla città di Bor, situata nella Serbia centrale, da cui ha preso il soprannome con cui è meglio noto, Stole iz Bora. Altrettanto, sul piano sportivo, tantissimi calciatori serbi hanno vestito la maglia della squadra anche dopo la guerra e alcuni di loro hanno raggiunto livelli di popolarità incredibili fra i tifosi, come Lazar Popović, Siniša Stevanović e Aleksandar Kosorić.
Una storia di resistenza
La guerra degli anni Novanta non è stato il primo momento in cui lo Željezničar ha dovuto resistere. Nel 1941, durante l’occupazione nazista, il club ha rifiutato di partecipare ai campionati organizzati dallo stato fantoccio filofascista della NDH, vedendosi così preclusa ogni attività. Nemmeno l’arrivo del nuovo potere socialista, però, ha portato giorni migliori: nel 1947, lo Željezničar è stato obbligato a cedere i suoi sei calciatori più importanti al neonato FK Sarajevo, che era stato designato come rappresentante della città nella neonata Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Un calciatore, Joško Domorocki, rifiutò fermamente il trasferimento: la sua immagine è presente ancora oggi su uno striscione del settore Sud dello stadio Grbavica.
Questo episodio è alla base della grande rivalità con il FK Sarajevo, che è stata costruita lungo gli anni su un piano di dialettica e umorismo più che su uno di odio e violenza. In questo senso, Ivica Osim ha detto che “tifare Sarajevo è una questione di geografia, mentre tifare Željezničar è una questione di filosofia”. Io non so se c’entri tanto la filosofia e so che si finisce per ricadere nel consumato slogan del “more than a club“, ma credo che lo Željezničar sia prima di tutto una comunità di persone, unite da alcuni valori fondamentali che spingono a scegliere il bene e resistere al male, nel nome dello storico motto della tifoseria: “Più forti di ogni guerra, di ogni regime e di ogni partito“.
Foto: FK Željezničar, profilo Facebook ufficiale.