Il 9 ottobre scorso è stata inaugurata a Belgrado, presso il Centro per la Decontaminazione Culturale, una mostra destinata a suscitare polemiche. Al centro, il massacro di Tuzla e il processo a Novak Đukić, criminale di guerra oggi a piede libero in Serbia.
La mostra
Il titolo è di quelli che invitano alla riflessione e all’introspezione: “Anche quando fa male, la verità è la cura”. L’oggetto della mostra rappresenta uno degli episodi più odiosi dell’intero conflitto bosniaco: l’eccidio della Kapija, la piazza del centro storico di Tuzla – la terza città della Bosnia – dove 71 giovani furono uccisi da una granata lanciata dalle milizie serbo-bosniache dalle alture circostanti. Era la sera del 25 maggio del 1995. Il fotogiornalista Mario Boccia ne scrisse nel 2011.
Il massacro della Kapija rappresenta uno dei pochi casi in cui la verità processuale è venuta a galla giungendo alla proclamazione della condanna definitiva del suo responsabile principale, l’ex generale dell’esercito della Republika Srpska, Novak Đukić. E’ lui che, al di là di ogni ragionevole dubbio, diede l’ordine di far fuoco sui civili inermi, perlopiù giovani. Ed è proprio al processo Đukić che la mostra è dedicata esponendo, oltre ad uno striscione commemorativo riportante i nomi delle vittime, una quarantina tra reperti e prove documentali.
Stando alle parole dell’organizzatore dell’evento, Sinan Alić – fondatore nel 2006 della Fondazione Verità Giustizia Riconciliazione, giornalista e attivista che da anni si batte per il riconoscimento dei crimini di guerra in Bosnia – l’intento dichiarato della mostra è proprio quello di incoraggiare a identificare la verità, vista come unica via attraverso la quale è davvero possibile “avviare quel processo di riconciliazione” mai veramente iniziato.
La giustizia negata
Un obiettivo su cui c’è ancora moltissimo da fare, come indirettamente dimostrato dalle proteste inscenate il giorno stesso dell’inaugurazione da un manifestante che ha tentato di interrompere la cerimonia, rivendicando a urla la presunta manipolazione del massacro, a suo dire opera di non meglio identificati terroristi islamici.
L’esibizione doveva essere inaugurata in occasione del venticinquesimo anniversario della strage, il 25 maggio, ma l’emergenza COVID-19 ne ha impedito lo svolgimento fino a ottobre. Nell’intento degli organizzatori la mostra sarà itinerante, con Belgrado solo come prima tappa di un tour che la vedrà toccare tutte le principali città della ex Jugoslavia.
C’è da sperare che l’iniziativa possa riportare l’attenzione sulla situazione processuale del reo, Novak Đukić, oggi a piede libero in Serbia: dopo essere stato temporaneamente scarcerato nel 2014 per vizi formali – per poi essere definitivamente condannato a vent’anni – si è dato latitante, per poi ricomparire oltre frontiera in Serbia, da dove grazie alla doppia cittadinanza sa di non poter essere estradato in Bosnia. A Belgrado Đukić gode, nemmeno troppo velatamente, della protezione delle autorità. Gli giova l’ostruzionismo dell’Alta Corte di Belgrado, che dovrebbe far valere anche in territorio serbo la sentenza definitiva comminata a Sarajevo, ma continua a rinviare le udienze dietro pretesti di natura medica.
Il coraggio di fare memoria
L’impressione, netta, è che Alić stia predicando nel deserto. La sua iniziativa, pari ad altre simili – come quelle promosse dalla ONG Youth Initiative for Human Rights per la consapevolezza dei crimini di guerra commessi in Serbia – rimane isolata e con un seguito complessivamente modesto.
Le proteste dell’urlatore solitario non sono altro che la punta dell’iceberg di un negazionismo sempre più aggressivo che attraversa in profondità la società serba, coinvolgendo larga parte dei media e arrivando a investire i vertici statali, istituzionali e politici, fino ai massimi livelli.
Un problema non solo serbo, va detto, ma ampiamente diffuso e condiviso anche in Bosnia Erzegovina, sia nella Repubblika Srpska che nella Federazione. Il revisionismo storico appare sempre più accettato e protagonista di una progressione che pare inarrestabile, allontanando – forse in maniera definitiva – ogni possibilità di trovare una narrazione condivisa degli anni del conflitto. Ed è proprio per questo che la mostra concepita da Alic – lui stesso già oggetto di aggressione in passato, proprio a Tuzla dove vive – è più che mai meritoria e coraggiosa.
Foto BIRN