Lo scorso luglio, mentre statue e simboli in tutto il mondo divenivano oggetto di protesta, presi di mira per il loro portato colonizzatore, razzista, sessista, discriminatorio in senso lato, a Zaliznyčne nella regione di Odessa lo stesso, ma in chiave quantomeno creativa, accadeva a un monumento di Vladimir Lenin. Come titola il giornale locale “Družba” il 20 luglio Lenin è diventato bulgaro: il restyling della statua del leader sovietico, deliberato dall’amministrazione locale, lo ha salvato dalla rimozione. Vladimir Il’ič ora porta un cappello tradizionale dei bulgari di Bessarabia, regge una pianta di vite e delle cesoie, mentre ai suoi piedi un cesto di vimini raccoglie abbondanti grappoli d’uva. Così ricontestualizzato, sfida chiunque a riconoscerne le fattezze originarie.
Non è chiaramente un caso che Lenin si sia fatto bulgaro. In questa zona nell’estremo sud-ovest d’Ucraina, un territorio stretto tra Moldavia e mar Nero, parte della regione storica della Bessarabia, è quella bulgara una delle comunità storicamente più diffuse. E il vino ne è diventato nel tempo un attributo fondamentale.
Una colonizzazione storica
I primi bulgari si trasferirono in quest’area tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, in particolare dopo la fine della (ennesima) guerra russo-turca nel 1812 (trattato di Bucarest); con loro altri popoli di fede cristiana, come i gagauzi, trovarono rifugio dall’impero ottomano sotto l’ala zarista, che li trattò come coloni di queste nuove terre acquisite, garantendo loro vantaggi fiscali e amministrativi attraverso una vera e propria campagna propagandistica di trasferimento.
Di occuparsi direttamente della questione dei “coloni stranieri della Russia meridionale” era stato incaricato nel 1818 il generale Ivan Inzov (cui rispondeva, tra gli altri, anche il poeta Aleksandr Puškin, che al tempo scontava in questa zona il suo “esilio meridionale”). Nel 1821 Inzov fondò per i nuovi sudditi bulgari la città di Bolhrad (che nel 1965 ha dato i natali all’ex presidente ucraino Petro Porošenko). Alla sua morte, in segno di riconoscenza, i coloni non solo portarono a spalla per oltre duecento chilometri, da Odessa a Bolhrad, la bara del generale, ma eressero un vero e proprio mausoleo in suo onore.
Quando nel 1859, in seguito alla guerra di Crimea, la Bessarabia meridionale divenne parte del nuovo stato romeno (fino al 1878), i coloni si videro privati dei privilegi e dei diritti garantiti loro dall’impero zarista e parte di essi (circa 30.000 persone) si trasferì più a est, lungo il litorale del mare d’Azov. Qui fu fondato il piccolo centro di Preslav, così chiamato in onore dell’importante città bulgara di Veliki Preslav.
Dopo la rivoluzione d’Ottobre i bulgari di Bessarabia si ritrovarono cittadini romeni (fino al 1944), quelli stabilitisi in Ucraina orientale sovietici. In entrambi i casi le politiche di nazionalizzazione soppressero i tentativi di formazione e rivendicazione di un’autocoscienza bulgara da parte di queste comunità minoritarie. Negli anni Trenta le repressioni sovietiche si abbatterono su almeno 25.000 intellettuali e membri del clero bulgari. Nel 1944, assieme a tatari, armeni, greci e tedeschi, 12.500 bulgari furono deportati dalla penisola di Crimea.
È stato soprattutto con il collasso dell’esperimento sovietico che la comunità bulgara ha potuto coltivare nuovamente un interesse verso le proprie origini e peculiarità nazionali, attraverso anche festival e iniziative culturali, come il recente film documentario Il luogo della forza (Mistse sili, 2018).
Oggi, stando all’ultimo censimento ucraino, sono 204.600 i bulgari nella repubblica ucraina, la sesta minoranza nel paese (al collasso dell’Urss erano 233.800). Oltre due terzi (140.000) vivono compattamente nella Bessarabia ucraina (regione di Odessa), una zona caratterizzata – qui, come nella Bessarabia moldava – da un’incredibile eterogeneità: sempre secondo il censimento, il 40% della popolazione qui si dichiara ucraino, il 21% si dice bulgaro, il 20% russo, il 13% moldavo, il 4% gagauzo. Il russo, per eredità zarista e soprattutto sovietica, è lingua franca. Nel distretto di Bolhrad i bulgari costituiscono il 61% dei circa 70.000 residenti.
C’è bulgaro e bulgaro
In seguito alle diverse ondate di immigrazione bulgara nel corso dell’Ottocento, le comunità, non provenendo dalle stesse zone di origine, presero a formare un mosaico eterogeneo di cultura bulgara in territorio zarista. La stessa lingua ne rispecchia il quadro: l’Atlante dei dialetti bulgari dell’Unione Sovietica, redatto nel 1958, distingue tra 64 varianti locali. Si tratta di varianti linguistiche che si discostano dal bulgaro standard, essendosi sviluppate per oltre un secolo in forma autonoma, partendo dalla parlata della zona di origine specifica.
Nel tempo si è comunque venuta a creare una forma interdialettale comprensibile a tutti i bulgari d’Ucraina. In parte il fenomeno è stato caratterizzato dalla forte influenza esercitata dal russo in epoca sovietica, in parte dalla naturale modernizzazione della vita della popolazione: è così che la parola automobile presso i bulgari d’Ucraina si definisce alla russa “mašina” (e non “kola”, come nel bulgaro moderno), la lavatrice è “stiral’na mašina” (e non “peralna mašina”), i quotidiani sono “gazety” (e non “vestnitsi”).
Inoltre, si parla di una lingua madre di natura orale, che per lungo tempo non è stata accompagnata da un apprendimento scolastico: è per questo che, rispetto al bulgaro, ha standardizzato una serie di abbreviazioni e variazioni fonetiche tipiche del parlato (“moja” per “moga” [posso], “kvo” o “ko” per “kakvo“ [cosa], “ga” per “koga” [quando]).
Oggi la situazione è in parte cambiata: dal 2012 l’Ucraina riconosce infatti come lingua regionale le lingue delle minoranze nazionali (lì dove almeno il 10% della popolazione le indica quale lingua madre), permettendone con ciò l’insegnamento scolastico. Va da sé, tuttavia, che il bulgaro insegnato è quello moderno, che quindi si discosta dalla variante locale. Il vero problema oggi tuttavia, osserva Rajna Mandžukova del Centro dei bulgari di Bessarabia, non è tanto l’insegnamento scolastico, quanto il fatto che “sempre più spesso nei villaggi bulgari i genitori parlano in russo ai figli”.
Di politica e di vino
All’interno della repubblica ucraina, quella bulgara è una minoranza che non teme di alzare la voce. A livello politico la figura di Anton Kisse non passa inosservata. Presidente dell’Associazione dei bulgari d’Ucraina e vicepresidente del Consiglio delle comunità nazionali d’Ucraina, Kisse fin dai primi anni Duemila rappresenta con autorevolezza la voce dei bulgari nella politica, anche all’interno del parlamento. Autore di un volume sulla Rinascita dei bulgari d’Ucraina, è molto amato in Bessarabia, dove ha supportato l’organizzazione di eventi e iniziative culturali e sportive. La figlia Anastasiya è atleta olimpica di ginnastica artistica — ma della nazionale bulgara.
Ma dicevamo del vino. È questo infatti il simbolo dei bulgari di Bessarabia — sia per quanto riguarda il più importante festival della città di Bolhrad (il Bolgrad Wine Fest), che per le proteste. Nell’agosto dello scorso anno la comunità ha letteralmente bloccato la strada che da Odessa porta a Bolhrad rovesciando camion di uva sull’asfalto: gli agricoltori, lamentandosi di non essere considerati “utili” per il paese, chiedevano protezione e supporto da parte dello stato a fronte della chiusura del mercato russo e delle importazioni di vino dall’Unione europea.
Il vino è infatti fonte di sostentamento per le famiglie bulgare di Bessarabia da oltre un secolo. Benché l’enologia non rientrasse tra le attività tradizionali dei coloni bulgari al loro primo insediamento nell’area, la condizione geografica e climatica favorevole (si trova qui il lago Yalpuh, il maggiore naturale in Ucraina) li spinse a orientarsi verso la produzione vinicola. Oggi il brand più importante e riconosciuto è Kolonist (280.000 bottiglie all’anno), nato nel 2005 nel villaggio di Krynyčne dagli eredi della famiglia Plačkov, originaria della Macedonia settentrionale. Il nome del marchio, fondato dall’ex ministro dell’Energia Ivan Plačkov, rende onore alla storia dei “coloni” bulgari di queste terre.
Quest’articolo è il frutto di una collaborazione tra OBC Transeuropa e East Journal
Immagine: bessarabia.ua