vittime italiane

BOSNIA: Le vittime italiane del conflitto degli anni Novanta

C’è un sottile filo conduttore che unisce indissolubilmente gli italiani che hanno perso la vita in Bosnia Erzegovina nel conflitto di inizio anni Novanta del secolo scorso: furono undici in tutto, un tributo pesante quand’anche comparato alle centomila vittime totali. Non la provenienza, né l’estrazione: c’erano, infatti, cooperanti, giornalisti, persino semplici sognatori o pacifisti, che poi è la stessa cosa. Tanto meno il loro status, quattro erano militari, gli altri civili. No, il filo che tiene insieme tra loro storie così diverse accomunandole in un unico destino è che, tutti, sono stati assassinati nel compimento di un atto d’umanità, di un gesto d’altruismo. Altruismo che si è fatto sacrificio: che fosse quello di portare viveri o beni di prima necessità alla popolazione o quello di raccontare al mondo quanto stesse succedendo perché il mondo sapesse e, magari, trovasse il modo di fermare il massacro. Per alcuni di loro giustizia è stata fatta, perlomeno quella che si celebra nelle aule dei tribunali, per altri non ci sono né nomi né facce da additare e probabilmente non ci saranno mai.

La cerimonia che l’ambasciata italiana ha officiato il 3 ottobre scorso nei pressi del ponte Vrbanja sul Fiume Miljacka a Sarajevo ci dà la possibilità di tornare su quel tributo. Negli anni della guerra la Miljacka non era un semplice fiume, era una linea di confine, un fronte aperto, un posto buono per la pletora di tiratori scelti desiderosi di mettere alla prova la propria abilità nel centrare uomini inermi. È qui che nell’aprile del 1992 l’assassinio di due manifestanti pacifiste, Suada Dilberović e Olga Sučić, mise il mondo di fronte al fatto compiuto: la guerra era cosa fatta e l’espressione “rata neće biti” (“la guerra non ci sarà”), tanto diffusa tra i sarajevesi nei mesi precedenti quella scintilla, era buona solo per illudersi ancora un po’, per spostare il limite del baratro un metro più in là.

Data e luogo scelte dalle autorità italiane per le celebrazioni non sono casuali, ovviamente: è proprio qui ed è proprio il 3 ottobre (del 1993) che Gabriele Moreno Locatelli incontrò il suo assassino e il suo destino. Era sul quel ponte per depositare un mazzo di fiori nell’ambito del progetto “Si vive una sola pace”, in risposta al grido che egli stesso aveva lanciato al mondo intero appena poche settimane prima con una delle sue poesie ”(…) gridate che qui la gente muore di granate, di malattie ma anche di paura, angoscia, disperazione perché non c’è pace (…)”. Locatelli era un fervente cattolico, un pacifista; di più, un costruttore di pace nella sconfinata bellezza dell’utopia di poterla portare a colpi di fiori e non di fucile.

Il suo omicidio si colloca temporalmente in mezzo ad altri due drammatici episodi, vittime ancora una volta civili. Sono tre volontari al seguito di un convoglio della Croce Rossa e della Caritas, Guido Puletti, Sergio Lana e Fabio Moreni a venire uccisi nei pressi di Gornji Vakuf, il 29 maggio del 1993. E’ una vera e propria esecuzione a sangue freddo sulla quale, al di là del riconoscimento dei perpetratori materiali, permangono ampie zone grigie su movente e mandanti: a maggior ragione in considerazione del fatto che il convoglio trasportava cibo e aveva lo scopo di mettere in salvo le donne e i bambini di Zavidovići, come d’accordo con le autorità croate e bosniache.

E ancora: sono sempre tre, ma questa volta giornalisti della sede RAI di Trieste, a rimanere dilaniati da una granata sparata non si sa da chi, sebbene tutti sapessero che i tre si trovavano proprio lì e proprio in quel momento. È il 28 gennaio del 1994 e Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Alessandro Ota sono a Mostar per raccontare del tributo dei bambini alla guerra – saranno 1500 quelli che perderanno la vita a fine conflitto – una verità scomoda che forse qualcuno non vuole sia raccontata. Con il loro corpo i tre fanno da scudo proprio a uno di loro, Zlatko Omanović, salvandolo.

Ed è ancora uno scopo umanitario che porta Marco Betti, Giuseppe Buttaglieri, Marco Rigliaco e Giuliano Velardi a viaggiare su un aereo militare dell’aviazione italiana nell’ambito del ponte aereo organizzato dall’ONU per trasportare beni di prima necessità alla Sarajevo sotto assedio da mesi. È il 3 settembre del 1992 e l’aereo, il Lyra 34, viene centrato da due missili terra-aria lanciati dalle pendici del monte Zec: i nostri quattro aviatori sono le prime vittime italiane della guerra e sono anche le uniche militari.

Non importa menzionare, qui ed ora, chi furono gli assassini, dire i loro nomi, ricordare da che parte stessero. E non perché la cosa non sia fondamentale, anzi, ma perché questo rischia di distoglierci dal punto vero. E il punto vero è che – fuor di retorica – quelle morti non sono state vane. Per onorarle e darle un senso sono nate associazioni, fondazioni per il sostegno degli ultimi, si sono rinvigoriti progetti, idee, iniziative. Persino un premio giornalistico internazionale. La targa che ricorda Locatelli sul ponte Vrbanja esemplifica alla perfezione tutto questo: “il tuo sangue è entrato nelle crepe di questa Storia. Sei arrivato in questa umanità sofferente e sei partito beato. E ora dal tuo martirio nascono storie nuove, storie che si concretizzano nella pace”.

Dopo la guerra la cooperazione tra Italia e Bosnia Erzegovina, nata anche in conseguenza di quei drammi, è proseguita e, tutt’ora prosegue. Ha preso mille sfaccettature, mille vie, vecchie e nuove, ma non si è mai interrotta. Quel filo, il filo che tutto unisce, non si è spezzato.

Foto dal sito dell’ambasciata italiana in Bosnia

Chi è Pietro Aleotti

Milanese per caso, errabondo per natura, è attualmente basato in Kazakhstan. Svariati articoli su temi ambientali, pubblicati in tutto il mondo. Collabora con East Journal da Ottobre 2018 per la redazione Balcani ma di Balcani ha scritto anche per Limes, l’Espresso e Left. E’ anche autore per il teatro: il suo monologo “Bosnia e il rinoceronte di pezza” ha vinto il premio l’Edizione 2018 ed è arrivato secondo alla XVI edizione del Premio Letterario Internazionale Lago Gerundo. Nel 2019 il suo racconto "La colazione di Alima" è stato finalista e menzione speciale al "Premio Internazionale Quasimodo". Nel 2021 il racconto "Resta, Alima - il racconto di un anno" è stato menzione di merito al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

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